“E luce fu”: il lavoro degli oculisti italiani nell'area sub-sahariana

“E luce fu”: il lavoro degli oculisti italiani nell'area sub-sahariana
di Alessandro Di Giacomo
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Mercoledì 21 Maggio 2014, 13:24 - Ultimo aggiornamento: 9 Giugno, 14:24

15mila interventi chirurghici di cataratta e oltre 75mila visite ambulatoriali in 26 missioni umanitarie svoltesi in 6 anni. Questi i numeri principali del progetto “Ridare la luce” dell’Associazione con i Fatebenefratelli per i Malati Lontani (AFMAL), in collaborazione con l’Aeronautica Militare, che per ora in 8 paesi sub-sahariani si prefigge di contrastare le malattie della vista e il problema della cataratta.

«Quello che in Italia è un intervento di routine, nell’Africa sub-sahariana rappresenta un’emergenza sanitaria e sociale, dato che la cataratta colpisce almeno 2 milioni di persone all’anno» ricorda il dottor Giorgio Ghirelli, responsabile del Centro Glaucoma UOC di Oculistica dell’Ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma, che ha già partecipato a diverse missioni durante le quali ha potuto dare il suo contributo a questa straordinaria iniziativa.

Le missioni si sono finora svolte in Marocco, Mali, Benin, Togo, Ghana, Tanziania, Ciad e Madagascar ed hanno visto la partecipazione di medici osculisti, infermieri specializzati, anestesisti e militari dell'AM.

Tutto il personale medico che partecipa alle missioni è motivato soltanto dalla volontà di restituire una vita dignitosa a persone già provate da una povertà che spesso non lascia spazio nemmeno alla speranza. I ricordi di questi professionisti sono spesso amari per le dure realtà che hanno potuto vedere ed avvicinare, ma anche colmi di momenti esaltanti.

Dottor Ghirelli, come vengono preparate e organizzate queste missioni?

«Una volta individuata dall’AFMAL la regione di intervento, i centri medici locali provvedono a richiamare i pazienti con un tam-tam via radio e quindi selezionano quelli da visitare. Quando noi arriviamo con tutta l’attrezzatura sui C130 dell'Aeronautica provvediamo a creare dei locali il più possibile sterili, allestendo studi e una sala operatoria: in questa fase non ci sono gerarchie, tutti fanno tutto per il necessario ambiente medico. Poi iniziamo a visitare e quindi ad operare, fino a 50 interventi chirurgici al giorno. Negli ospedali locali, principalmente gestiti da religiosi, non c’è oculistica, quindi abbiamo una enorme mole di lavoro da fare in pochi giorni. A sera si dorme nelle celle dei religiosi, locali spartani, ma vi assicuro che si arriva così stanchi che il sonno non manca!».

Oltre alla cataratta, quali altre patologie riscontrate e come le affrontate?

«Oltre che sulla cataratta, vista la mia specializzazione, personalmente intervengo sui glaucomi, ma questo vuol dire dover anche impartire agli infermieri locali delle nozioni di oculistica per i decorsi postoperatori. Riscontriamo, inoltre, molti tracoma o oncocercosi dovuti a insetti e parassiti che infettano gravemente gi occhi».

Al di là degli ostacoli linguistici, come vi relazionate con questi pazienti?

«Sul piano linguistico sono gli addetti locali che provvedono a mediare tra noi e i pazienti, ma il più delle volte quest’ultimi si affidano a noi con grande fiducia e quindi tutto diventa semplice. Il malato purtroppo parla spesso la lingua universale della sofferenza e sta al medico capirla».

Ha percepito delle differenze tra un paese africano all’altro?

«Direi di no. Quando sono da noi non esistono differenze religiose o di razza. Un altro aspetto che, per esempio, si percepisce ovunque e' che quando si restituisce la vista ad un malato di cataratta si libera anche il bambino che gli fa da guida. In pratica, oltre a ridare indipendenza all’adulto malato, si restituisce indipendenza anche al bambino che gli era stato assegnato dalla comunità per assisterlo. Il bambino potrà dunque tornare a scuola, giocare, avere la sua vita e questo aggiunge soddisfazione a soddisfazione».

Un aneddoto o un’emozione che le resterà per sempre?

«Anedotti tanti, ma è impossibile descrivere le emozioni che si provano. Ho pianto e riso di commozione e gioia. L’evento più toccante e' quando un bambino che conosceva i genitori solo dalle voci li può vedere per la prima volta. Laggiù spesso i neonati nascono ciechi bilaterali per la cataratta congenita a causa della mancanza di profilassi e prevenzione da parte della mamma durante la gestazione. Quando li mettiamo in condizione di vedere, lo stupore di questi bambini che finalmente associano delle voci alla mamma ed al papà commuove inesorabilmente. In questi casi si piange, senza vergogna, ma abbiamo anche riso tanto, come quando in Ghana un capovillaggio mi onorò di una festa dopo averlo operato e mi regalò un drappo con frasi d’augurio».

Personalmente, perché volle iniziare questo percorso umanitario?

«La prima volta mi fu proposta ed accettai con curioso entusiasmo, come una semplice novità da scoprire; poi invece scoprii la grande soddisfazione umana che mi regala e sento di ricevere più di quello che do. Quando non abbiamo missioni in programma mi mancano, quando torno non vedo l’ora di ripartire e penso che sia l’eguale stato d’animo che provano tutti gli straordinari colleghi con cui ho condiviso queste esperienze. Dalla mia prima missione del 2005, sento di ringraziare l’AFMAL per il fantastico lavoro che svolge e l’Aeronautica Militare per la grande disponibilità nel consentirci di portare aiuti in quelle regioni svantaggiate».

Il suo approccio, il suo spirito sono cambiati da una missione all’altra?

«No, semmai al rientro dalle missioni cambia il mio pensiero per la vita che facciamo in Italia».