L'uomo venuto dall'Est sulle orme di Pietro

Papa Giovanni Paolo II in montagna ad Aosta
di Franco Zeffirelli
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Venerdì 18 Aprile 2014, 17:20 - Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 11:01
Cos pass Nerone, come passano la guerra, la fame e la peste. Ma presso l’antica porta Capena c’ una piccola lapide a met cancellata dal tempo: Quo vadis, domine?. E la basilica di Pietro domina ancora, dalla vetta del colle Vaticano, la città e il mondo.

Henryk Sienkiewicz

Quo vadis?, 1896



Piedi nodosi e possenti calpestano le larghe pietre dell’Appia antica. Sono quelli dell’apostolo Pietro, che torna a Roma dopo aver incontrato Cristo.



Fu il pittore polacco Henryk Siemiradzki a mostrare all’amico scrittore Sienkiewicz, tra l’Appia antica e la via Ardeatina, la cappella nel cui ammattonato vive un pezzo della vecchia strada con impressa l’impronta di un piede. Lì, secondo la tradizione e l’apocrifo degli Atti di Pietro, Cristo avrebbe incontrato l’apostolo in fuga da Roma. Lì il pescatore di Galilea si convinse a tornare nell’Urbe, dove Nerone perseguitava i cristiani, incarcerandoli e dandoli in pasto alle belve.



Con lo stesso passo, con gli stessi piedi, Karol Wojtyla è arrivato a Roma dall’Est d’Europa. Ultimo dei tre figli di Karol senior e di Emilia Kaczorowska, eccolo bambino a Wadowice, nato di maggio, nel 1920. A nove anni è forte, prestante. Gioca nei cortili e nei giardini con i ragazzi della comunità ebraica. Adora la madre, che muore per una malattia cardiaca proprio in quel periodo, seguita, tre anni più tardi, da Edmund, il fratello medico di Karol. Olga, la sorella, era mancata prima che lui nascesse.



Il futuro Papa è chino sul banco di scuola, tra i libri. A scuola va benissimo, tanto che il padre, con non pochi sacrifici l’accompagna negli studi fino all’Università. Le immagini del Karol studente vanno dalle fughe di scaffali pieni di libri della biblioteca, che ama frequentare ad ogni ora del giorno, alle tavole del palcoscenico, dove fa l’attore in un gruppo teatrale di ricerca. Il giovane ama la poesia, la letteratura, le lingue straniere.



I sogni e le tensioni di Wojtyla s’infrangono bruscamente contro le forze di occupazione naziste, che chiudono la sua Università nel 1939. Karol cerca lavoro e lo trova prima in una cava, poi nella fabbrica chimica Solvay, che produce soda caustica. Evita così la deportazione in Germania. Lo zoom cerca il suo documento di identità ottenuto facendo l’operaio: Karol Wojtyla, nato a, eccetera.



Negli occhi del giovane uomo, sempre lucidi, conoscitivi, febbrili, ci sono in questi anni le perdute carezze della madre; gli orrori delle persecuzioni inflitte durante la guerra agli ebrei, tra i quali conta tanti amici; e un groviglio di sensazioni interne che, senza uccidere l’innata allegria della vita, lo chiama a Dio. Karol vuole diventare sacerdote. Frequenta i corsi di formazione del seminario maggiore clandestino di Cracovia, diretto dall’Arcivescovo, il cardinale Adam Stefan Sapieha. Ma non abbandona il palcoscenico, facendosi promotore del carbonaro Teatro Rapsodico. Ordinato sacerdote nel 1946, parte per Roma, dove otterrà il dottorato in teologia. La sua spiritualità, intensa e carnale, è ben rappresentata dalle immagini di un corpo possente prostrato nottetempo sul piancito di una cappella, nella navata centrale, davanti al Santissimo. Quanti i colloqui di Karol con Dio! Quante le domande, quanti i dubbi e i superamenti degli stessi!



La tesi di laurea del neo-dottore si occupa, non a caso, del tema della fede nelle opere di San Giovanni della Croce, il grande mistico spagnolo della Noche obscura del alma: En la noche dichosa,/en secreto, que nadie me veía/ni yo miraba cosa,/sin otra luz y guía/sino la que en el corazón ardía. La fiamma mistica si unisce, in Karol, alla necessità di sudare lavorando, di intervenire fattivamente sulla realtà. Eccolo, durante le vacanze, raggiungere e assistere gli emigranti polacchi in Francia, in Belgio, in Olanda, e accompagnarli nello loro povere scampagnate, il cibo condiviso, un libro di poesie in mano, le canzoni della patria a portata di labbra.



Nel 1948 il ritorno in Polonia, prima nella parrocchia di Niegowic, vicino a Cracovia, poi in quella di San Floriano, in città. Sono anni di assistenza e di studio. Karol fa il cappellano degli universitari fino al 1951, quando riprende e approfondisce le conoscenze filosofiche e quelle teologiche. Si laurea all’Università di Lublino. Arriva anche alla cattedra: Teologia morale ed etica nel seminario maggiore di Cracovia e nella Facoltà di Teologia della stessa Lublino. Mi piace immaginarlo, il futuro Pontefice, alla prese con gli studenti in questi anni attivi, tra una conversazione su temi etici, scottante o tormentosa, e qualche puntata in alta montagna, alla ricerca di aria pulita, candori sempre agognati sui quali ritrovare il volto della madre e intessere dialoghi ravvicinati con il Divino.



Il 4 luglio 1958 Pio XII nomina Wojtyla vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia, la sua città, della quale diventa arcivescovo sei anni dopo, nominato da Paolo VI, che nel 1967 lo crea Cardinale. Passa poco più di un decennio. I cardinali riuniti in Conclave dopo la morte di Papa Luciani eleggono Wojtyla vescovo di Roma e Sommo pontefice. Era il 16 ottobre 1978. Le immagini, a questo punto, si sovrappongono le une alle altre con una rapidità degna del nome e dell’apostolato di Giovanni Paolo II, degne di quel «se sbaglio mi corriggerete» che è stampato nell’immaginario dell’intero pianeta. E il nuovo Papa scampa a un brutale attentato; incontra i rappresentanti di tutte le Chiese; visita la Sinagoga di Roma; approda nelle parti più lontane della terra, da Cuba allo Zaire, dal Brasile al Pakistan. Eccolo bussare alla porta delle parrocchie di Roma; incontrare milioni di pellegrini, i governanti di ogni parte del mondo, capi di Stato e Primi ministri. Eccolo dare il via, nel 1985, alle Giornate Mondiali della Gioventù, come sempre innamorato dei giovani e pronto a cantare e a ballare con loro.



Ventisette anni di pontificato, il tragico attentato a cui sfuggì, quattordici lettere encicliche, cinque libri (tra i quali voglio ricordare quello a me più caro, Trittico romano, meditazioni in forma di poesia, del 2003, una colomba alla quale bonariamente impedì di alloggiarsi sulla sua papalina e il bambino che nascose sotto la cappa bianca. La sua vita, il suo magistero, la stoica sopportazione del dolore e la sua morte li ritrovo nel manto multicolore indossato per l’apertura della Porta Santa: un paramento ingiustamente criticato, capace di riassumere tutte le diverse e infiammate ispirazione del Pontefice. Il quadro finale? Il Vangelo sulla bara di legno chiaro, sfogliato dal vento d’aprile in piazza San Pietro, quando più di tre milioni di pellegrini sono confluiti a Roma per rendere omaggio alla salma del Papa, incuranti della sete, della stanchezza, delle ore di attesa necessarie per arrivare accanto a Karol, il «santo subito».
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