Berlinguer, il primo film da regista di Walter Veltroni racconta il carisma del leader del Pci

Enrico Berlinguer
di Mario Ajello
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Mercoledì 19 Marzo 2014, 16:48 - Ultimo aggiornamento: 22 Marzo, 08:48
Gli occhi di Enrico Berlinguer. A un certo punto cambiano, nel bel film che Walter Veltroni ha dedicato al leader del Pci. E in quello sguardo che non pi pieno di speranza e di apertura, ma è come ripiegato su se stesso, velato da un senso di sconfitta non tanto personale ma nazionale, Veltroni - alla sua prima prova da regista cinematografico e c’è tutto Walter in questo racconto tra memoria e futuro intitolato Quando c'era Berlinguer - registra il passaggio dalla primavera della democrazia che si allarga alla partecipazione di tutti, e trova nel Pci un partito di respiro ampio e capace di superare gli steccati ideologici fino a raccogliere un elettore su tre, a quello che l'autore chiama e descrive così. Come «il terribile inverno, fatto di disperazione sociale e violenza politica. Un tempo di sangue e di odio, che culminò con il rapimento di Aldo Moro».



ELEGIA

Non solo un film su Berlinguer, e tutt’altro che un film nostalgico. Si tratta invece dell’elegia e insieme del tentativo di riaffermazione per immagini - stupende quelle in bianco e nero girate da Veltroni in cui si vede piazza San Giovanni vuota dopo il funerale del leader il 13 giugno ’84 e l'unico movimento nella desolazione di un'esperienza che aveva promesso tanto sono le prime pagine dell’Unita con su scritto "Addio" e volano chissà dove senza ricongiungersi mai in una nuova comunità politica vera, come avremmo scoperto - di un'idea di politica e di democrazia che si basa su quella sorta di connessione sentimentale tra partito e popolo, tra la sinistra e gli italiani. Questo fu il berlinguerismo, secondo Veltroni. E in questo sta - se il film ha una morale, forse la morale eccola qui - la crisi attuale della democrazia senza partecipazione e senza respiro. A rischio di perdere se stessa o di diventare altro da sé.



Quando c'era Berlinguer - ma chi era Berlinguer? è la domanda rivolta a una serie di ragazzi di oggi in apertura del film, e c’é chi risponde: «Un francese!» - è un racconto che riguarda anche l'oggi. Ed è impressionante la lettera, scovata da Veltroni e finora rimasta inedita, che il giovane Enrico scrisse ai genitori dal carcere in cui trascorse tre mesi nel '44, con l'accusa di essere stato uno degli istigatori della rivolta popolare con assalti ai forni nel gennaio di quell’anno. La voce di Berlinguer nel film è di Toni Servillo (quella di Pier Paolo Pasolini è di Sergio Rubini e tra i giovani figgicciotti che dialogano con PPP naturalmente c’era anche Walter), e di che cosa sta parlando nella missiva il giovane Enrico? Di qualcosa a noi notissimo, in questi tempi, del rifiuto della politica. Il leader ragazzo già allora aveva capito che «l'apoliticità è una malattia diffusa però non è epidemica. Mi accade spesso di incontrare questi strani individui che vogliono autodefinirsi apolitici. Secondo queste persone, dove si parla di politica non c’é pace per l'uomo».



LA SCONFITTA

La politica che si sarebbe ridotta così, a simbolo negativo, è il prodotto anche della sconfitta di Berlinguer. Una sconfitta - prima politica e poi fisica, ed è straziante il documento completo della lotta tra il leader del Pci e la morte che gli è piombata addosso sul palco dell’ultimo comizio a Padova, mentre la folla lo vuole salvare e urla: «Basta, Enrico» - dovuta alla solitudine di un riformista a suo modo comunista. Dicono tutto alcune interviste contenute nel film, quelle all’ex ambasciatore americano Gardner, a Gorbaciov, al brigatista Franceschini, a Bianca Berlinguer che racconta del tentato omicidio da parte dei comunisti bulgari tramite un finto incidente stradale (e «di fatto in Bulgaria papà non sarebbe mai più tornato»). Dicono dell’accerchiamento patito dal segretario comunista. Dei blocchi conservatori, interni e internazionali, di destra e di sinistra (in più c’é il craxismo e la scena dei fischi contro l'ospite del Pci al congresso di Verona ha la forza del dramma), che portarono al fallimento del progetto politico berlingueriano. Di cui parlano anche Giorgio Napolitano (fino a commuoversi rispondendo alle domande di Veltroni), l'anzianissimo Pietro Ingrao in chiusura del film, Eugenio Scalfari, Emanuele Macaluso e tra gli altri l'autista del leader, e tanta gente comune, militanti, operai, persone che si sono riconosciute in una persona. E si sono riconosciute in Berlinguer non per impulso moralistico - il moralista Berlinguer non c’é nel film e forse non ci fu nella realtà - ma per bisogno di migliorare la qualità della democrazia. Ma ecco Jovanotti. Tra le testimonianze raccolte da Veltroni la sua forse è quella più bella. Aveva 18 anni Lorenzo quando morì il leader del Pci. Ora ne parla così: «Comunista é una parola che non mi ha mai fatto paura, perché la associo con quella correttezza di Berlinguer, con quella faccia, con quelle parole, con quella onestà e quindi continua ad essere nei miei ricordi una bella parola che muore con chi in qualche modo l'ha inventata. Muore con Berlinguer la parola comunista». Quel che resta - e qui il film diventa poetico e toccante, e le lacrime non sono vietate - sono i vuoti. La piccola barca vuota di Berlinguer, nel mare di Stintino.



La stanza di albergo vuota, a Padova, in cui egli aveva patito la sua agonia. Le sale vuote che erano state piene durante i suoi comizi e i suoi interventi. Piazza San Giovanni, vuota, subito dopo i funerali straboccanti di popolo. Il problema è che, in politica, nel bene o nel male il vuoto si riempie sempre. Quello lasciato da Berlinguer è rimasto tale. Ed è il caso, come Veltroni giustamente suggerisce, di farsene un cruccio.