Pio d'Emilia
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L’ombra di Fukushima sulla fiaccola olimpica

L’ombra di Fukushima sulla fiaccola olimpica
di Pio d'Emilia
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Lunedì 8 Marzo 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 23:16

«Lo so che qui non potrò mai tornare a viverci, ma non riesco a rassegnarmi. Ogni tanto salgo in macchina, vengo qui davanti, misuro le radiazioni, le appunto su un blocchetto e me ne torno a Tokyo. Dove oramai da molti anni sono costretto a vivere per colpa di uno Stato bugiardo e di uomini avidi, incompetenti e arroganti». Sembra di stare in Italia, quante volte abbiamo sentito queste parole tra i cittadini vittime di una catastrofe più o meno naturale, più o meno annunciata, stufi e indignati per l’assenza dello Stato? E invece no, siamo a Namie, una piccola cittadina sulla costa orientale del Giappone.


Yoshio Konno, 68 anni, è un medico chiropratico, una lunga tradizione di famiglia che purtroppo si interromperà per sempre. I suoi due figli non ne vogliono sapere di continuarla. Ma non è di questo che si lamenta. Il suo dolore, la sua rabbia, è tutto causato e tutta rivolta verso uno Stato che l’ha tradito. E che continua a farlo. «Vedi, oggi segna 4,8 microsivert – mi dice mostrandomi il piccolo contatore geiger che si porta sempre appresso – l’anno scorso erano meno di 4. Non c’è speranza. Basta un po’ di vento, e questi maledetti isotopi ricominciano a danzare. Il limite fissato dal governo per tornare a vivere qui è di 0,2. Figuriamoci. Quello che più mi disturba, in questi giorni, è che su queste strade, riaperte al traffico ma dove se non si ha un permesso speciale è vietato fermarsi, tra pochi mesi dovrebbe passare la staffetta olimpica. Assurdo».


Namie è una piccola cittadina sulla costa orientale del Giappone. Qui, l’11 marzo del 2011, la terra ha tremato a lungo, poi è stata travolta da un’ondata di 16 metri che in pochi minuti ha raso al suolo oltre metà del territorio, portandosi via tutto, uomini, donne, bambini, animali, botteghe e abitazioni. Il bilancio finale è stato di 180 vittime, tra morti accertati e dispersi. Ma il peggio, se c’è un peggio, doveva ancora arrivare. L’incidente nucleare. Quello per il quale Namie è ancora oggi, a dieci anni di distanza, una città deserta: di oltre 20 mila residenti prima del disastro, solo un migliaio sono tornati, per la maggior parte anziani. Un incidente, il più grave dopo Chernobyl, all’epoca tenuto nascosto per molte ore, giorni, mesi. E di fatto ancora in corso, con tre reattori che non vogliono saperne di arrendersi, e che nessuno sa ancora se e quando si riuscirà a spegnerli definitivamente.
Ma nessuno ne parla: l’attenzione dei media nazionali in questi giorni, è tutta concentrata – per carità, più che legittimamente visto che si tratta di circa 20 mila persone - sulle vittime dello tsunami e sulle “Olimpiadi della rinascita”, che, virus permettendo, dovrebbero rilanciare definitivamente l’immagine, se non l’economia, del Paese.

Non una parola sull’incidente nucleare, sulla situazione tutt’altro che “sotto controllo” alla centrale, sui nuovi, preoccupanti danni provocati dall’ultimo terremoto, un paio di settimane fa, che pare abbia danneggiato almeno una cinquantina di bidoni di acqua contaminata, quella che prima o poi (se già non lo stanno facendo) verrà sversata nell’oceano.


Nessuna attenzione, tranne che sui media locali, per il dramma che continuano a vivere i cittadini di questa zona, che dopo essere scampati allo tsunami e aver salvato le loro vite e le loro abitazioni, si sono visti invadere dalle radiazioni. Un nemico invisibile, subdolo e terribile. Un nemico che è ancora qui, appollaiato sui tetti, nascosto tra le piante, sdraiato sull’erba. Che appare e scompare a suo piacimento, senza alcuna possibilità di controllarne o prevederne i movimenti. 


Fukushima, dieci anni dopo. Eravamo qui, dieci anni fa, a raccontare, per quanto possibile, l’immane tragedia che aveva colpito il popolo giapponese. Terremoto, tsunami, incidente nucleare. Tre colpi micidiali che hanno colpito una delle zone più belle e povere del Giappone, ma anche ferito in modo indelebile i suoi abitanti, mettendo a dura prova il tradizionale – anche se a volte più subìto che condiviso - rapporto di fiducia e collaborazione tra cittadini e autorità e un tessuto sociale che al di là di una spesso solo presunta omogeneità denuncia profonde divisioni, discriminazioni, contraddizioni. 


Essere di nuovo qui, in questi giorni, ricordare quei terribili momenti con le persone conosciute all’epoca, e che hanno avuto il coraggio di restare o di tornare a viverci provoca grande commozione e sofferenza. Ma è anche un privilegio. E’ solo qui, tra questa gente gravemente ferita ma non sconfitta, indignata ma capace di nascondere rabbia e dolore dietro un’incrollabile, dignitosa compostezza, che capisci come basti attendere l’ennesima fioritura di un ciliegio per trovare la forza di andare avanti. Ed è quello che, come sempre e per sempre, sta succedendo in questi giorni.

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