Francesco Grillo
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La riforma che serve/ Un fisco semplificato per un Paese più moderno

di Francesco Grillo
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Mercoledì 14 Luglio 2021, 00:19

Persino Albert Einstein fu costretto ad ammettere al proprio commercialista che la questione più difficile da capire è quante tasse pagare sul proprio reddito. Un’ulteriore estensione dell’osservazione dell’uomo che intuì la teoria della relatività è, anzi, il teorema per il quale un sistema fiscale perfetto è quello nel quale è possibile pagare le tasse senza rivolgersi al proprio commercialista. Ed è proprio su questo terreno che l’Italia trova il maggiore svantaggio competitivo che si è autoimposta. L’ostacolo da rimuovere con maggiore urgenza per arrivare ad una crescita stabile che è l’obiettivo di Draghi, del Ministro dell’Economia Franco e di qualsiasi persona che si trovasse a dover governare un Paese pieno di energia strozzata. 

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Il confronto internazionale

Che l’Italia riesca ad avere il più complicato sistema fiscale è dimostrato dal confronto internazionale. La difficoltà di adempiere ai propri obblighi fiscali è una tassa in più e la classifica della Banca Mondiale ci vede al 128esimo posto. Saremmo dietro al Mozambico in una graduatoria che presenta problemi di comparabilità; e, tuttavia, anche se ci limitiamo ai Paesi che sono simili, siamo ultimi (dopo la Grecia) nell’Unione e ultimi tra gli Stati di più alto sviluppo (quelli Oecd). Se poi volessimo misurare l’inconoscibilità di un sistema fiscale contando il numero di commercialisti di cui abbiamo bisogno per adempiere ai nostri doveri, vale la pena ricordare che i membri dell’ordine dei commercialisti sono in Italia quasi 120.000: un numero tre volte superiore a quello della somma dei propri colleghi in Germania, Francia e Spagna.

È condivisibile, dunque, l’approccio delle Commissioni del Senato e della Camera dei Deputati che, qualche settimana fa, hanno rilasciato un’indagine conoscitiva sulla riforma del sistema tributario partendo proprio dalla questione della “semplificazione” e della “certezza”.

Che viene, nella logica di un processo di riforma, prima di quella della pressione fiscale che pesa complessivamente sull’economia italiana; e dell’evasione fiscale che è favorita dalla opacità di un sistema. 

Sono giuste le priorità trasmesse al Governo per la predisposizione della legge delega attesa per il 31 Luglio in Parlamento e, tuttavia, la stessa relazione presenta due carenze che un esecutivo forte può correggere. La prima ha a che fare con la necessità di definire meglio i limiti ad un legislatore che, come avverte la relazione stessa, utilizza troppo spesso la leva fiscale come strumento di politica economica. La seconda – ed è una questione quasi assente nel dibattito – riguarda la stessa organizzazione delle Agenzie.

Ripartire da un testo unico

Per ciò che concerne il primo punto, è giustissima l’idea di ripartire da un testo unico che razionalizzi l’intero sistema, cancellando centinaia di esenzioni e di tributi minimi costruite su misura di micro lobby. Tuttavia, è assolutamente fondamentale che una riforma complessiva e, persino, radicale non si dimentichi di mettere paletti rispetto alle derive che successive ondate di politicanti possano promuovere per inseguire l’ultimo sondaggio. Giusta, dunque, l’idea di portare in Costituzione le principali norme dello “statuto dei contribuenti” (quello che definisce i diritti del cittadino come quello alla irretroattività di nuovi tributi). Lo stesso principio dovrebbe valere per struttura complessiva del sistema per renderlo stabile e vietare che le leggi finanziarie vadano oltre la mera modifica delle aliquote. Il grafico che accompagna questo articolo dice che siamo il Paese che più frequentemente introduce “riforme” parziali (più di una all’anno, ai quali si aggiungono condoni continui che hanno lo stesso effetto negativo sui livelli di certezza). 

La stessa idea della relazione parlamentare di continuare l’utilizzo del fisco per fini di “transizione ecologica”, appare in contraddizione con l’obiettivo della semplificazione. Su tale transizione ci giochiamo la sopravvivenza di un’economia e di una società, ma è sbagliato utilizzare il fisco come leva per realizzare una politica che ha bisogno di scelte sofisticate che non possono essere lasciate ad automatismi che hanno l’effetto collaterale di rendere il sistema meno trasparente.

In secondo luogo occorre, però, dare sostanza alla “rivoluzione manageriale” dell’attività di riscossione. Le agenzie devono tornare a fare il proprio mestiere che è quello di attuare (e non interpretare) la volontà del legislatore. Ciò significa creare incentivi per limitare sia i “falsi positivi” (cartelle sbagliate che portano contribuenti normali a dover perdere tempo produttivo), sia “falsi negativi”, situazioni di cronica, sistematica sottrazione di imponibile. Un’idea potrebbe essere quella di un aggio/ sanzione “al contrario” che compensi i cittadini del dover rispondere ad errori non propri. Ma anche un meccanismo che, deliberatamente, porti le agenzie a concentrarsi sui casi che possono produrre maggior recupero. 

C’è, poi, la questione del linguaggio e del rapporto stesso tra sistema e contribuente: test rapidi di comprensibilità delle comunicazioni e delle circolari potrebbero portare all’annullamento di tutti gli atti che sono non conoscibili da un diretto interessato mediamente istruito, senza far ricorso ad un esperto. E vanno istituiti veri e propri “call center” (utilizzando, persino, sistemi di intelligenza artificiale) a disposizione degli utenti (soprattutto anziani) per chiarire dubbi. 

Un Paese moderno non è un Paese perfetto e non potrà vivere senza commercialisti. Continuerà ad esserci un grande bisogno di competenze qualificate per collegare un mondo che cammina veloce verso l’intelligenza artificiale e Stati rimasti ad una concezione hegeliana del potere. La riforma fiscale di cui però abbiamo assoluto bisogno è il passaggio fondamentale per ricostruire un patto tra cittadini e Stato senza il quale continueremo ad essere fermi. Nonostante l’energia che può farci vincere. 

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