Paolo Balduzzi
​Paolo Balduzzi

Giovani e stress/ L’importanza di ripartire imparando dagli errori

di ​Paolo Balduzzi
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Martedì 5 Marzo 2024, 00:00

Ci vuole più coraggio a chiedere aiuto che ad affrontare da soli un problema. A tale conclusione molti di noi ci arrivano ormai da adulti, se non da anziani. E molti di noi, pur sapendolo e dispensandolo come consiglio ad altri, sono poi incapaci di farlo. Invece, a soli trent’anni, Mattia Balardi, in arte Mr. Rain, ci ha conquistati tutti cantando proprio che “a volte chiedere aiuto ci fa paura ma basta un solo passo” (Supereroi, 2023). E ci ha conquistati ancora di più oggi che ha davvero tramutato i suoi versi in azione. Mr. Rain e Sangiovanni sono due giovani artisti (il secondo, addirittura, giovanissimo) che hanno pubblicamente annunciato di voler fermare per un po’ di tempo la loro attività musicale, a causa delle eccessive pressioni del proprio lavoro. Alle loro e a simili vicende ha dedicato una bellissima pagina il Messaggero di ieri.

Riuscire a gestire pressione e aspettative sul mondo del lavoro non è certo questione di poco conto. Vale quindi la pena di chiedersi se la principale istituzione pubblica dedicata all’educazione dei più giovani, vale a dire la scuola, possa svolgere un ruolo in tutto questo. In altri e più espliciti termini: quanto potrebbe aiutare il sistema scolastico? E quanto in effetti lo fa? La risposta è “moltissimo”: ma questo vale solo per la prima domanda. Quando si passa dal potenziale all’effettivo, l’entusiasmo cala notevolmente.
 

Anzi: il sistema scolastico rischia a volte di peggiorare la situazione. È facile vederlo da osservatore privilegiato: il livello di stress durante gli esami universitari è spesso esagerato. “E’ solo un esame”, verrebbe da dire. E lo è davvero: ma non agli occhi di certi studenti. Per i quali ciò che stanno sostenendo non è solo un esame o un compito in classe. E l’esito non è solo un voto: quel numero diventa un giudizio insindacabile sulla propria personalità. Se non addirittura sulla propria esistenza. Lo può purtroppo testimoniare chiunque, anche gli osservatori non privilegiati, di fronte a strazianti fatti di cronaca: ragazzi, a volte preadolescenti, un’età in cui per noi genitori è ancora naturale chiamarli, intimamente, “bambini”, che decidono di farla finita di fronte a un brutto voto. Non si può naturalmente fare di ogni erba un fascio. E l’analisi delle cause di certe azioni non può che essere svolta caso per caso: a volte il disagio deriva dall’ambito famigliare, altre da atti di bullismo, altre ancora può essere una debolezza interna mai adeguatamente comunicata o mai sufficientemente intuita dagli adulti di riferimento. Si ha però l’impressione che, a volte, il mondo scolastico diventi partecipe di questa crescente pressione rispetto a un risultato, sia esso scolastico o lavorativo.

Altra testimonianza pubblica è l’elevato tasso di abbandono scolastico nel nostro paese, in diminuzione rispetto al passato ma ancora superiore al 10% e alla media europea. È comunque bene essere chiari: non è assolutamente possibile affermare che ogni singolo istituto concorra a questo fenomeno.

Ci sono docenti che, dalle elementari fino alle superiori, sono in grado tanto di capire i loro studenti quanto di ottenerne la fiducia. E se la triste contabilità dei casi negativi è resa possibile dalla cronaca, quella dei casi di successo è, per definizione, impossibile. Ma come si può rendere l’esperienza positiva di alcuni istituti una regola generale? Innanzitutto, misurando, mappando, valutando e pubblicizzando le migliori sperimentazioni sul territorio. Queste ultime, invece di diffondersi, spesso nascono e muoiono a ogni cambio di dirigente illuminato o di docente volonteroso. Eliminare i voti, come suggeriscono molti pedagogisti, potrebbe essere la soluzione? Forse, almeno per i primi anni: perché non provare davvero? Naturalmente non si possono eliminare né l’insuccesso né il fallimento: però è possibile venire educati a essi.

“Meglio sarà avere verso l’errore un atteggiamento amichevole e considerarlo come un compagno che vive con noi ed ha un suo scopo” scriveva Maria Montessori, per ricordare a ogni scolaro (ma soprattutto a ogni insegnante!) che sbagliare non solo è possibile ma è anzi naturale e soprattutto positivo. L’errore è parte integrante e non conclusiva del processo di apprendimento: e in questo senso devono essere utilizzati i voti, nei livelli di istruzione dove sono considerati necessari. Sarebbe bello che le valutazioni numeriche fossero così presentate dai docenti: e sarebbe altrettanto bello che così fossero vissute anche dalle famiglie. Perché è innegabile che gran parte del carico emotivo, in ambito scolastico prima e lavorativo poi, deriva proprio dalle persone che sono più vicine ai ragazzi. Lo stress, per la maggior parte dei giovani, non deriva certo dal dover onorare un qualche contratto con la casa discografica, bensì dalla paura (la paura!) di deludere mamma e papà. La scuola potrebbe fare anche altro: potrebbe piano piano abbandonare le tradizionali lezioni frontali e coinvolgere sempre di più gli studenti con presentazioni, lavori di gruppo, autovalutazioni dei propri lavori. Potrebbe cioè sviluppare prima la conoscenza di se stessi e solo successivamente quella del mondo. E poi fornire gli strumenti per imparare invece che semplicemente delle singole nozioni: considerare cioè gli studenti soggetti dell’apprendimento invece che vuoti vasi da riempire. Dopo anni di continue e, a volte, improbabili sperimentazioni, forse vale la pena di tentare anche questa strada: potrebbe davvero essere la volta buona. 
 

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