Mario Ajello
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Il voto di giugno/ Esistere uniti o scomparire, la vera sfida per l’Europa

di Mario Ajello
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Sabato 13 Aprile 2024, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 10:30

Si sta entrando nel vivo. E i prossimi giorni saranno quelli, cruciali, degli annunci delle candidature o meno (più sì che no) dei leader dei partiti alle Europee. Perciò è il momento di un appello di cittadinanza, di una richiesta condivisa, trasversale e popolare a tutta la politica, affinché non siano maltrattate queste elezioni importantissime. E non diventino, come già sta accadendo in questo principio di campagna per il voto di giugno, l’ennesima corrida tra partiti, correnti di partito, aspirazioni più personali che pubbliche, a prescindere dal merito di queste consultazioni. 


E’ essenziale, e salutare per il futuro italiano, non fare delle Europee un confronto in cui manca l’Europa. La quale, mai come adesso, è davanti a un punto di svolta: marciare o marcire? Andare avanti, come vogliono gli europeisti della destra responsabile e della sinistra riformista, o recedere magari per non esistere più? L’insistenza sui temi forti su cui la nuova Europa deve battersi - la difesa comune, il rilancio economico, la lotta all’immigrazione clandestina, il ruolo di arbitro e di protagonista nelle sfide globali, il non ritorno all’asfissia dell’austerità, le politiche ambientali che non siano astrattamente ideologiche e penalizzanti per la vita materiale dei cittadini - e il rifiuto di infilarsi nel piccolo cabotaggio della rissa autoreferenziale e puramente propagandistica sono i due asset utili a dare alla corsa elettorale un tono alto e insieme profondo, una prospettiva di costruzione e di vicinanza reale ai bisogni dei popoli europei a cominciare dal nostro.

Urge insomma alzare il livello del dibattito, e lo standing dell’Europa, anche perché al momento nell’opinione pubblica - come attestano tutti gli studi, anche quelli prodotti dai vertici delle istituzioni comunitarie: si veda per esempio la ricerca dell’European Council on Foreign Relations - la fiducia in Bruxelles è piuttosto bassa su molti dossier. C’è delusione un po’ su tutto, e oltre il 60 per cento dei cittadini europei giudica deficitarie le misure messe in campo dopo il Covid per la ripresa economica, per non dire quanto sia indigesta a livello popolare la politica del Green Deal.

Il senso di questo voto - altro che risse provinciali - sta nel dare finalmente una postura forte, e sensibile alle questioni che toccano la vita di tutti, alla Ue e fornire alle istituzioni comunitarie le competenze di cui necessitano per il bene comune. Selezionando una classe dirigente più attrezzata di quella vista finora, più adatta a fare scelte vere. Senza impantanarsi in gelosie nazionalistiche, senza farsi bloccare dalle proprie regole iper-burocratiche e insieme surreali e invasive (voler decidere, per esempio, sulle dimensioni delle vongole) e cambiando con urgenza i criteri che stanno penalizzando l’azione dell’Europa (va cancellato l’assurdo criterio dell’unanimità tra tutti i Paesi membri nel prendere le decisioni).

Il rischio, se non si alza il livello della sfida, è che l’Unione diventi un ectoplasma dal quale i cittadini non si sentono rappresentati. Vale la pena, a questo proposito, ricordare le parole (anno 1954, nello «Scrittoio del presidente») di Luigi Einaudi, liberale, sviluppista, concretista: «Dobbiamo saper cogliere l’attimo fuggente.

Se non ci riusciamo l’errore è irreparabile. Voglio dire che la necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti, senza una cornice comune, sono polvere senza sostanza. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione: è tra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli Stati italiani alla fine del ‘400 costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza per tre secoli. Ed il tempo della decisione, allora, durò pochi mesi».

Osservazioni che Einaudi rifarebbe oggi e che interrogano tutti noi che ci troviamo a vivere in un tornante storico. Quello in cui l’Europa non può più essere priva di una sua corporeità e restare più che altro un’espressione geografica e ha bisogno di disegnarsi addosso un modello di potenza, quella che serve in una fase di crescente competizione globale in cui, particolare assai rilevante, le grandi metropoli oltre ai grandi Stati saranno i top player e Roma non può prescindere dal valorizzare al massimo la propria grandezza e a identificarsi, perché lo dice la storia ma non solo quella, come un soggetto centrale nella mappa del potere anche economico del mondo dei nostri giorni.

Si tratta allora - per mobilitare gli elettori e far loro toccare con mano le potenzialità dell’Europa - la via del coraggio, e di mostrare da parte dei leader e dei partiti che si vuole dare risposta a quella che è la prima richiesta dei cittadini: il 68 per cento degli europei (fonte Ipsos) vuole che l’Unione trovi soluzioni adeguate all’aumento dei prezzi.

I temi su cui mobilitare l’elettorato sono anche molti altri e sostanziali (non è certo quello di sfruttare un controllo di legalità dei magistrati su Bari per gridare al complotto e fare la campagna elettorale). Se gli europeisti si dividono in lotte di fazione del tutto incomprensibili ai loro possibili votanti, non solo non si fa sentire l’emergenza di questo momento ma si rende futile un’elezione così decisiva. Fa impressione (ne parlava una settimana fa Prodi presentando il libro di Nardella) che la stragrande maggioranza dei giovani non sappia che tra due mesi si va a votare per l’Europarlamento. 23 milioni di giovani potranno votare per la prima volta eppure questa fascia generazionale non sembra affatto concentrata sull’appuntamento dell’8 e 9 giugno. Ed è un segnale che l’Europa non si è fatta percepire come un fattore vivo e coinvolgente, ma come un’entità chiusa e distante.

Leader e partiti hanno tutte le possibilità, in queste settimane, per capovolgere - puntando su serietà e sguardo lungo - questa situazione. I giovani, e non solo loro, sono attratti dalle sfide e dalle performance, dai campioni alla Sinner. Perché mai la Ue e i partiti europeisti, invece di assistere alle grandi partite dai bordi del campo, non lo invadono beneficamente, non si mettono al centro del perimetro di gioco, non agiscono da registi e così le ragazze, i ragazzi, ma anche i loro genitori e i loro nonni, avranno squadre da spingere, in cui credere e per cui palpitare?

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