Giuseppe Vegas
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Influenza social/ L'oblio della ragione ai tempi delle big tech

di Giuseppe Vegas
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Domenica 14 Aprile 2024, 00:05

Il 2024 si preannuncia come un anno in cui si terranno elezioni di cruciale importanza, che potrebbero cambiare il nostro futuro. Basti solo pensare alle presidenziali americane e a quelle del parlamento europeo. Ben si comprende dunque perché vada crescendo la preoccupazione che le fake news possano portare ad uno sviamento della volontà degli elettori e, di conseguenza, alterare i risultati del voto. È il momento di domandarsi come sia possibile riconoscere le notizie false e di quali strumenti si disponga per discernere il grano dal loglio. Compito assai arduo. Solo che si consideri che, diversamente dal passato, oggi la comunicazione avviene attraverso un sistema di messaggi veicolati da strumenti informatici, decentrati e frammentati, nei quali la notizia si fonde con il giudizio di valore di chi la propaga. Tanto più che il vaglio sulla veridicità non dipende dall’attendibilità del fatto posto all’attenzione dell’opinione pubblica, quanto piuttosto dall’ampiezza del consenso che riceve nella rete.


A complicare il tutto si aggiunge la circostanza che, grazie alle nuove tecnologie, ciascun individuo può liberamente diffondere a sua discrezione notizie e valutazioni e che i siti attraverso i quali ciò avviene sono illimitati e globalizzati. La conseguenza è che un ordinario fruitore è teoricamente nelle condizioni di conoscere tutto, ma più spesso di non comprendere nulla. Possedere milioni di tessere non significa di per sé essere in grado di comporre un mosaico. Recenti indagini, a partire dagli studi Istat, ci hanno dimostrato che il livello di preparazione dei nostri ragazzi, anche di quelli che quest’anno saranno chiamati a votare, non è adeguato rispetto alle sollecitazioni a cui sono sottoposti. Le stesse indagini hanno sollevato il sipario su una realtà dove la formazione non si svolge attraverso la lettura e la comprensione di un libro di testo, quanto preferibilmente mediante l’acquisizione mnemonica di sunti e appunti. Inoltre, il più delle volte la valutazione avviene attraverso il metodo dei quiz, strumento inidoneo a premiare il ragionamento.

Quanto alle modalità di presentazione delle notizie, i canoni espositivi odierni si basano generalmente su criteri di brevità ed incisività. Recenti studi hanno evidenziato che, per colpire la sensibilità dell’interlocutore, la frase ideale non deve superare le sette parole. Il messaggio mediatico è elaborato in modo da evitare che chi lo riceve sia posto nelle migliori condizioni per elaborare un ragionamento. Gli esponenti politici, allorquando sono chiamati, in televisione o attraverso un canale radiofonico o del web, ad esprimere la propria opinione, si limitano ad enunciare un assioma, in pochi secondi, con aria assertiva e senza fornire alcuna motivazione di sorta.

Il successo della comunicazione, poi, non dipende tanto dal suo reale contenuto, quanto dalla capacità persuasiva del messaggio mediatico. A questo scopo vengono in soccorso i principi elaborati dallo studio delle neuroscienze cognitive.

Si tratta di una branca relativamente nuova delle neuroscienze, che, a far data dagli anni ’80, si occupa di studiare il pensiero umano grazie all’analisi dei mutamenti che avvengono a livello cerebrale in conseguenza delle sollecitazioni a cui è sottoposto l’individuo Studiando direttamente. Questa indagine è resa possibile dallo sviluppo dell’informatica, che è oggi in grado di simulare, grazie ad una rete di neuroni artificiali, una serie di attività cognitive vicine a quelle dell’uomo.

L’odierna comunicazione, dunque, non si svolge attraverso l’utilizzo di canoni esplicativi e persuasivi di carattere tradizionale – l’illustrazione del problema, la sua spiegazione, il confronto, le proposte in campo, la conclusione – ma, più semplicemente, indicando direttamente la soluzione. Facendo in modo che il destinatario del messaggio sia disincentivato dal valutare proposte alternative o comunque non trovi interesse ad approfondire l’argomento.

Il messaggio, che ai nostri occhi appare rozzo e spesso tautologico, è invece accuratamente studiato per esaltarne la capacità persuasiva. Tiene conto delle reazioni che si possono manifestare a livello cerebrale nei destinatari, al fine di orientarle verso l’obiettivo desiderato. In sostanza, una esposizione anche apparentemente neutrale può invece essere in grado di colpire direttamente l’attenzione degli interlocutori e di indirizzarne le scelte. Si tratta di un metodo a cui si fa ricorso ormai da tempo nel mondo delle pratiche commerciali e che adesso è entrato prepotentemente in quello della comunicazione politica.

Si tratta di una realtà di fronte alla quale ci troviamo disarmati. Certo, si possono invocare interventi da parte dei pubblici poteri. Ma il fatto che la ricerca e l’utilizzo di questi sistemi è in mano ai colossi tecnologici multinazionali rende difficilissimo, se non impossibile, definire una regolamentazione su scala mondiale. In questo quadro, certamente offrono occasione di apprezzamento gli interventi di alcuni governi, come quello degli Stati Uniti nei confronti di Apple, o dell’unione europea in tema di controllo dell’uso improprio dell’intelligenza artificiale, o, infine delle autorità antitrust europee e nordamericane, in tema di abuso delle posizioni dominanti di questo tipo di imprese.

Tuttavia, si tratta solo di interventi di supplenza, che non saranno mai in grado di tutelare le regioni dei fruitori dei servizi di comunicazione, né, tantomeno, di proteggerci dalle notizie false o che mirano ad influenzare le nostre decisioni. Il solo realistico ed efficace strumento di difesa è invece quello di riappropriarci del metodo della conoscenza. Oggi, più ancora che all’epoca del Sommo Poeta, “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

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