Paolo Pombeni
​Paolo Pombeni

Criteri diversi/ Lo slalom per scegliere i candidati alla Europee

​Criteri diversi/ Lo slalom per scegliere i candidati alla Europee

di ​Paolo Pombeni
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Martedì 2 Aprile 2024, 00:10

È una partita complicata quella per la formazione delle liste dei candidati alle prossime europee. L’accento dei commentatori può cadere su questo o quell’aspetto, ma è il loro groviglio a determinare una specie di rebus di difficile soluzione. Da un lato infatti le elezioni europee sono diventate ormai chiaramente un test per valutare il piazzamento delle varie forze politiche, dall’altro sono pur sempre il mezzo con cui si decide la rappresentanza italiana al parlamento di Bruxelles/Strasburgo, ma infine sono anche una occasione per “sistemare” un po’ di quadri nel puzzle che forma i vertici dei partiti.


Se non si analizzano le varie componenti e non si coglie il loro intrecciarsi non si capisce il nervosismo che in questa fase pervade, sia pure con intensità diverse, i gruppi dirigenti delle forze politiche in campo. Che poi i travagli siano diversi a seconda delle storie di ogni partito e delle rispettive dimensioni è abbastanza ovvio.
Partiamo dalle aspettative di fare di quel che uscirà dalle urne del 9 giugno una specie di super sondaggio sulla percentuale di consensi che ciascuno raccoglie e di conseguenza del posizionamento che potrà conseguire nel quadro politico e istituzionale. Questo spiega la lotta serrata per la conquista di ogni punto, anzi di ogni zero virgola, di percentuale. Così l’imperativo è trovare il marchingegno per allargare al massimo la sfera dei consensi che si possono raccogliere e qui ci sono due tecniche. La prima, che sembra essere quella perseguita da Elly Schlein e dal suo gruppo, è puntare su personalità che si suppone raccolgano voti perché sono “personaggi” di alta visibilità certificati dal giro dell’opinionismo mediatico. La seconda, che sembra quella perseguita da Giorgia Meloni e dai suoi, è di massimizzare l’effetto traino di chi guida in questo momento il governo e ne determina la politica.


Così si penalizzano le riconferme di chi è deputato al parlamento europeo. Stiamo parlando della raccolta di voti in collegi enormi, dove la capacità delle tradizionali organizzazioni dei partiti di omogeneizzare elettorati diversi, ma tutti molto “mobili”, è fortemente ridotta rispetto ai vecchi tempi (giusto per dirla in termini gentili). I parlamentari europei non sono figure che bucano gli schermi, nonostante lo sforzo che molti di loro fanno per infilarsi in ogni possibile talk show, e dunque non hanno lo standing per garantirsi da soli la rielezione. Ovviamente essi fanno presente che poi nelle Aule di Bruxelles/Strasburgo bisogna saper fare politica e che lì non è questione di fare audience generica, ma ciò non è abbastanza per pretendere un diritto indiscutibile alla successione di sé stessi. 


Intendiamoci: il tema della efficienza della rappresentanza italiana al parlamento europeo non è secondario. Anche se gli spazi di manovra sono minori di quelli pretesi da chi esalta alcune possibilità di fare “scena”, sono comunque rilevanti e sfruttandoli si possono portare a casa risultati per il paese (anche oltre un po’ di ordinario lobbismo, che non manca).

Per l’Italia c’è tutto l’interesse ad avere in quel consesso una presenza che possa dialetticamente operare nel futuro quadro di eventi che non saranno per più aspetti di ordinaria amministrazione: ma lo si potrà fare disponendo di professionalità e non di bandierine o di portavoce di generici stati d’animo di qualche settore rampante della pubblica opinione. Sono ragionamenti seri, ma il fatto che i parlamentari europei a fine mandato non siano in grado di trascinare consensi di massa li penalizza e li marginalizza nella considerazione di gruppi dirigenti che hanno in mente più che altro l’incremento, o il probabile decremento delle percentuali assegnate ai loro partiti, cioè in definitiva alla loro sopravvivenza ai vertici di essi.


Qui si inserisce però il terzo elemento da prendere in considerazione: l’inserzione delle posizioni al parlamento europeo nella distribuzione delle “cariche” politiche con le quali si devono premiare, o meglio garantire gruppi dirigenti sempre più professionalizzati. Una realtà di cui si tiene poco conto è che oggi i partiti hanno visto restringersi il campo delle opportunità di adeguata sopravvivenza ai livelli precedenti che sono in grado di offrire a chi per varie ragioni deve lasciare le posizioni di vertice nelle istituzioni. È un problema che si è visto presente anche nei Cinque Stelle che avevano, ai tempi del grillismo imperante, teorizzato la transitorietà dell’occupazione di posizioni politiche. Con un seggio a Bruxelles/Strasburgo si “sistemano” personalità che hanno servito nelle istituzioni i partiti a cui appartengono: non è solo questione di dargli uno stipendio, come volgarmente si tende a dire, ma di offrire loro una collocazione che consenta di continuare a “fare politica”: forse a livello europeo se avranno la statura necessaria, senz’altro nel contesto italiano, che rimane l’orizzonte di riferimento di questi professionisti della politica (il termine non va considerato offensivo: una buona politica non esiste senza una classe di buoni professionisti, a patto ovviamente che non si trasformino in un blocco alla circolazione e al reclutamento delle elite).


Una oculata gestione di questo complesso intreccio di esigenze dovrebbe essere l’obiettivo di gruppi dirigenti responsabili. Invece in un contesto in cui si ritiene che da un lato tutto si giochi sulla scommessa a spiazzare i propri avversari ottenendo qualcosa in più di quel che i sondaggi attribuiscono e che dall’altro si crede che tanto la politica, europea e non solo, la fanno “i capi” sicché importa poco la squadra su cui si conta, è piuttosto difficile che ci si eserciti in questa razionalità.
 

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