Romano Prodi
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Post-globalizzazione/ La nuova frontiera del mondo del lavoro

di Romano Prodi
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Sabato 1 Luglio 2023, 00:27

Nella grande tragedia che sta travolgendo il mondo la Cina, attore principale insieme agli Stati Uniti, sta giocando un ruolo apparentemente defilato. Prima di tutto perché, non avendo condiviso né la decisione né la strategia del suo “grande alleato” (che rimane grande alleato) sulla guerra di Ucraina, preferisce giocare di sponda e, come sua tradizione, comprare tempo. Questo comportamento è tuttavia anche, e soprattutto, conseguenza della situazione interna in cui la Cina si trova.


L’uscita dal lungo e difficile periodo di chiusura per il Covid è più lenta e difficile del previsto. Il ritmo di sviluppo, pur collocandosi ancora ad un livello più che rispettabile, non ha avuto il rimbalzo che tutti si aspettavano. Non solo i lunghi anni della crescita a due cifre sono definitivamente alle spalle, ma le previsioni per l’anno in corso sono state continuamente corrette al ribasso. Le ultime si collocano poco al disopra del 5%. Si tratta naturalmente di un dato non trascurabile, ma non sufficiente per le necessità e le aspettative di un paese che si è posto l’obiettivo di inserirsi fra i primi del pianeta, non solo per la dimensione assoluta del Prodotto Nazionale, ma anche per il reddito pro-capite dei suoi cittadini. Due sono i punti di crisi che oggi maggiormente preoccupano la vita quotidiana dei cinesi. Il primo riguarda la caduta dell’attività edilizia, che per decenni era stata uno degli elementi portanti dello sviluppo: un ridimensionamento in qualche modo scontato date le mostruose dimensioni raggiunte in precedenza. 
 

Fenomeno nuovo, inedito e allarmante è invece la disoccupazione giovanile, oggetto primario delle conversazioni e delle preoccupazioni quotidiane delle famiglie. Inoltre, come si accennava in precedenza, l’impatto del lockdown e la faticosa ripresa dei consumi interni, sta provocando la chiusura di un enorme numero di piccole attività dei centri urbani, mentre è ancora inesistente il flusso del turismo straniero. Queste conseguenze negative del Covid sono comuni a molti altri paesi, ma occorre aggiungere che, almeno temporaneamente, la Cina ha perso smalto nell’opinione internazionale. I controlli burocratici sempre più severi e la vita quotidiana più sorvegliata, stanno rendendo sempre meno gradevole la presenza nei luoghi di lavoro, di svago e nelle università. Da qui nasce un fenomeno nuovo, molto preoccupante per il futuro, cioè il trasferimento delle sedi direzionali (headquarters) di un crescente numero di imprese straniere dalla Cina continentale verso Singapore, a cui si accompagna un vero e proprio crollo degli investimenti esteri in Cina. Nel lungo periodo questo sarà un elemento molto negativo perché lo straordinario aumento della produttività cinese si era fondato anche sugli investimenti stranieri che non solo gli Stati Uniti, ma anche la stessa Cina, stanno ora orientando verso il Messico e altri paesi a basso costo del lavoro e a basso rischio politico.


Tutti questi comportamenti sono il naturale frutto delle crescenti tensioni politiche e colpiscono soprattutto i settori ad alta tecnologia o che possono avere, in qualche modo, un uso militare o strategico.

Tuttavia, nonostante queste tensioni politiche e le varie forme di “embargo”, il commercio che potremmo definire “normale” prosegue, anche se non con l’impetuosa crescita precedente. Dati gli stretti legami reciproci costruiti in passato, la rottura immediata e radicale del commercio sarebbe infatti un danno irreparabile per entrambi i contendenti che, pur in una situazione politica di crescente tensione, amano ripetere che i loro rapporti commerciali sono guidati da una strategia di diminuzione dei rischi e non da una volontà di rottura. Di fatto l’importazione “normale” americana dalla Cina ha continuato a crescere (seppure di un modesto 7%) anche se prendiamo come parametro il 2018, l’anno in cui Trump ha dichiarato la guerra commerciale. Allo stesso modo le esportazioni americane verso l’Impero di mezzo sono leggermente cresciute.


Non diverso è lo schema dei rapporti fra Europa e Cina dove il commercio si sforza, pur con esito variabile da settore a settore, di proseguire nel cammino tracciato. Tuttavia la ferrea limitazione nell’esportazione delle tecnologie avanzate, il controllo degli investimenti stranieri nell’Ue e degli investimenti europei all’estero, stanno preparando un futuro molto incerto. Come emerge chiaramente da queste evoluzioni, anche se non siamo alla fine della globalizzazione, stiamo certamente camminando verso una sua vigorosa correzione, in conseguenza della quale la crescita mondiale è destinata a calare e il prezzo dei beni a crescere. In parallelo è inoltre già cominciata una feroce lotta per l’attrazione di quei “posti di lavoro in più” che la trasformazione della globalizzazione può rendere possibile. Gli strumenti per questa attrazione sono essenzialmente due: i tanti sussidi pubblici per le imprese ad alto livello tecnologico e il basso costo del lavoro per i settori meno avanzati. In questa gara gli Stati Uniti hanno messo a disposizione il portafoglio più gonfio, mentre in Europa la risposta si è divisa in due parti. Da un lato Germania (soprattutto) e Francia stanno attraendo le tecnologie di punta con ogni mezzo, mentre il resto viene attratto dai salari bassi di Romania, Ungheria e Bulgaria. Si attende di conoscere quale vuole essere il ruolo italiano in questa lenta ma, almeno per ora, inesorabile trasformazione.
 

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