Paolo Balduzzi
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Picco astensioni/ Le risposte che mancano sul voto che non c’è

di Paolo Balduzzi
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Giovedì 16 Giugno 2022, 00:05

La scorsa domenica si è consumata l’ennesima tragicommedia della politica italiana. La commedia è presto spiegata. Un partito (la Lega) si mobilita per richiedere sei referendum abrogativi, di cui cinque ammessi, su un tema che è sempre stato caro all’intero centrodestra: la giustizia. Le istanze alla Consulta arrivano da ben nove regioni italiane (Lombardia, Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte), prevalentemente proprio a guida leghista. Secondo la costituzione, ne sarebbero bastate cinque. È come se, raccogliendo le firme, ne fossero state depositate quasi un milione invece delle 500.000 minime necessarie. Nonostante l’imponente organizzazione facesse presagire una mobilitazione elettorale altrettanto coinvolgente, non si può certo dire che la campagna referendaria sia stata vivace. Non lo è certamente stata in televisione, dove, a parte gli spazi obbligatori, poco tempo è stato dedicato ai referendum; non lo è stato nelle strade, dove gli spazi elettorali sono rimasti tristemente disadorni. Unica meritoria eccezione la carta stampata, tra cui questo giornale, che ha proposto interviste, editoriali e approfondimenti.


Il risultato è sotto l’occhio di tutti: la partecipazione ai referendum, già in diminuzione nel tempo, è arrivata ai minimi storici. Solamente un avente diritto su cinque si è recato alle urne: un risultato, c’è da scommettere, che sarebbe stato addirittura inferiore se non avesse avuto il traino delle elezioni amministrative. La tragedia invece riguarda lo stato di forma di quello che dovrebbe essere il principale strumento di democrazia diretta da parte dei cittadini, vale a dire proprio il referendum abrogativo. Gli elettori non hanno molte alternative, infatti: la Costituzione non prevede referendum consultivi; le uniche altre tipologie di referendum riguardano la conferma di modifiche costituzionali e la modifica dei confini regionali o l’aggregazione di enti locali a regioni diverse da quelle di appartenenza. I primi sono stati usati quattro volte nell’intera storia repubblicana; i secondi si limitano a qualche decina di casi, tutti di interesse locale. La tradizione dei referendum abrogativi è invece ben più ricca: a partire dal 1974, si sono tenute 18 consultazioni referendarie abrogative. Nella maggior parte dei casi, peraltro, su quesiti multipli. Tuttavia, il quorum è stato superato solo il 50% delle volte. Non solo: negli ultimi venticinque anni, a partire cioè dal 1997, i referendum abrogativi sono sempre falliti, con l’unica eccezione del 2011 (due referendum sull’acqua, uno sul nucleare e uno sul cosiddetto legittimo impedimento).

Tutto ciò appare davvero strano, in un’epoca storica in cui invece sembra essere maggiore la richiesta di partecipazione da parte dei cittadini. A questo punto, le domande che il legislatore dovrebbe porsi sono almeno due. La prima è quella dirimente: abbiamo ancora interesse a utilizzare il referendum abrogativo? La risposta non è affatto scontata.

Già nell’Assemblea costituente il dibattito fu acceso, perché in molti erano contrari alla possibilità che il corpo elettorale potesse cancellare una norma legittimamente approvata dal Parlamento. In questo senso si spiegano sia la previsione delle 500.000 sottoscrizioni sia quella del quorum. Se oggi, con l’identità digitale, è relativamente semplice raccogliere 500.000 firme, lo stesso non può dirsi del 1948; anche il numero, mezzo milione di elettori, era piuttosto consistente rispetto sia al totale della popolazione (46,2 milioni) sia al totale degli aventi diritto che, nel 1948, erano solamente coloro che avevano più di 21 anni (29,1 milioni). Per confronto, vale la pena di ricordare che nel 2022 gli aventi diritto al voto (maggiorenni) sono ben 49,8 milioni, circa il 70% in più che nel 1948. Almeno sulla carta, quindi, oggi è relativamente più semplice fare richiesta di un referendum abrogativo. Il quorum ha la stessa finalità: la consultazione è valida solo se un numero sufficiente di elettori ritiene degno di interesse l’argomento sottoposto a voto. Oppure se ritiene di essere sufficientemente preparato per rispondere al quesito proposto. Sarebbe interessante che ogni leader politico si esprimesse su ciò. Ammesso che si decida di mantenere questo strumento, vale poi la pena di passare alla seconda domanda: come valorizzarlo. Una possibilità per ridare vigore al referendum potrebbe essere quella di renderlo, paradossalmente, più difficile. A partire dalla raccolta delle firme.

Con l’organizzazione e la tecnologia contemporanea, raccogliere 500.000 firme è oggi un requisito ex ante troppo semplice da soddisfare. Rinforzarlo permetterebbe di infrangere un altro tabù, vale a dire il mantenimento del quorum. Le possibilità sono numerose. Quella più estrema prevede la sua eliminazione radicale. Una riforma che, per rispettare lo spirito della Costituzione, dovrebbe essere però bilanciata da un rilevante e non simbolico aumento delle firme richieste (tre milioni? Cinque?). Un’alternativa è quella di un quorum variabile, collegato per esempio all’affluenza delle elezioni nazionali più recenti. In questo modo, si potrebbe internalizzare il fenomeno dell’astensione strutturale che in tutte le democrazie mature tende a manifestarsi. Un’altra possibilità, infine, è quella di evitare referendum troppo tecnici e di limitarli invece a grandi questioni che potremmo definire di coscienza o addirittura di morale, come furono per esempio i casi di aborto e divorzio e come oggi avrebbe potuto essere il caso dell’eutanasia se il quesito fosse stato accolto dalla Consulta. Una proposta che difficilmente verrà accolta, perché i voti “secondo coscienza” sono quelli che spaccano partiti e coalizioni. Ma se la partecipazione langue, la democrazia si indebolisce. E la mancanza di risposta a queste due domande da parte del legislatore è essa stessa una risposta: la peggiore che ci potremmo attendere. 

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