Mario Ajello
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Il 4 novembre/ Quei valori della Nazione da raccontare ai giovani

di Mario Ajello
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Sabato 5 Novembre 2022, 00:32

La scena dei due presidenti all’Altare della Patria questa volta racchiude un significato particolare. E forse più forte rispetto ad altre occasioni. Sia perché la collaborazione istituzionale tra Quirinale e Palazzo Chigi in questo avvio del governo Meloni sta funzionando. Sia perché si è fatta sempre più stringente in Italia la necessità di uno scatto in avanti della consapevolezza pubblica, sulla scorta dei due presidenti, verso il superamento delle divisioni politico-culturali - di cui hanno patito ingiustamente anche le feste repubblicane, compresa quella del 4 novembre - che è essenziale in una fase nella quale è richiesta la massima coesione nazionale, per dare al nostro Paese il protagonismo che merita. Riconoscersi sempre di più e tutti insieme nelle tappe fondanti dell’identità italiana, e quella che segnò la fine della Grande Guerra è per eccellenza una di queste, ci fortifica. Ossia ci fornisce quel surplus di fiducia nei nostri mezzi che può, anzi deve, avere un riferimento non retorico ma politicamente attivo nella vittoria del 1918. 


Chi ancora si attarda nella lagna della «vittoria mutilata» e chi ancora indulge nel vedere quel successo di 104 anni fa, che pure è costato oltre 600mila morti più i mutilati, gli invalidi, la distruzione di famiglie e destini, come il colmo del militarismo contesta alla radice e senza alcun fondamento la verità pronunciata ieri da Mattarella: «Le Forze Armate hanno consentito all’Italia di diventare uno Stato libero».  E guai ad accostare in maniera semplicistica e anti-storica il dramma della prima guerra mondiale al rifiuto senza se e senza ma di tutte le guerre. Un esempio di questa scorciatoia propagandistica lo vediamo oggi a Roma nella manifestazione neutralista delle sinistre (mentre il cosiddetto Terzo Polo a Milano evita ipocrisie e sfila a sostegno del popolo ucraino) che confonde l’aggressore di Mosca con l’aggredito di Kiev. E che rischia, in nome del non volersi schierare in quanto «ogni guerra è brutta in sé» (ma che scoperta!) di essere lo specchio di una cultura politica orientata più che altro alla difesa del quieto vivere e alla fuga dalle responsabilità per ossequio a un pacifismo banalmente traducibile così sotto il mantello di alte motivazioni morali: se qualcuno deve pagare i costi umani, economici, sociali e energetici del conflitto in corso, questi non vogliamo essere noi. 


Posizioni così, più di tipo moraleggiante che di riconoscimento pratico che una guerra è una guerra e nessuna guerra può ammettere ipocrisie o furbesche equidistanze, non fanno un buon servizio all’odierna causa italiana. Che è quella di affrontare le durezze del presente e del passato con il coraggio della lucidità e della consapevolezza storica. Questo è l’atteggiamento con cui, oltre un secolo dopo, occorre approcciarsi alla Grande Guerra, che è stata insieme una strage ma anche un mito fondante della nostra identità.

In quell’evento e nel suo ricordo si possono rintracciare le ragioni per andare avanti più convinti del nostro ruolo nel mondo. E dunque, quanto ci serve il 4 novembre! Guarda caso questa celebrazione arriva all’indomani della visita di Meloni a Bruxelles. Riscoprire il valore di quel passaggio epocale della ‘15-‘18 significa rilanciare un patriottismo sano. Quello che ci consente di giocare oggi le grandi partite internazionali che soltanto sulla base di una condivisione intera della nostra storia, e quindi di un rafforzato vincolo culturale, politico e popolare, possono essere affrontate con buona possibilità di riuscita. 


Il 4 novembre è allora un mastice che non può scadere, come sanno bene Mattarella, Meloni e tutti i principali attori della scena politica. E quell’insegnamento della Grande Guerra resta una lezione di vigore e di dignità. Fu un momento di estrema unità nazionale e occorre tenerne viva la memoria, coniugandola al futuro. Perché il patriottismo, da insegnare di più a scuola, da spogliare di vecchie retoriche e modellare come base su cui crescere e affermarsi come nazione senza particolarismi territoriali e partigianerie, è un sentimento pratico legato a una prospettiva e a un destino collettivo. E ora che la politica ha ripreso il suo ruolo, non c’è nulla di politicamente più forte, in senso moderno, nel riconoscersi in tutte le fasi della nostra storia e nel non avere paura di sentirsi patria nel senso più pieno della parola. 


Nazione e merito sono le due parole di questa fase e il 4 novembre le contiene entrambe. Perché la Grande Guerra è stata il culmine del Risorgimento, cioè della costruzione della nazione con il rafforzamento del rapporto tra masse e istituzioni e con il popolo che si identificò nell’esercito creando un legame prezioso tuttora, e insieme è stata la scoperta di lunga durata che siamo un popolo meritevole nella capacità di combattere, di soffrire, di vincere e di ricostruire. E se non ora - con la sfida del Pnrr, con la ridefinizione dell’Europa e la nostra ricollocazione in questo ambito, con un governo finalmente legittimato dal voto dei cittadini e quindi meglio attrezzato per muoversi e per contare - quando puntare veramente sull’Italia? Il 4 novembre ci invita a farlo. E mai come adesso, la chance è quella di radicare un patriottismo vitale nelle coscienze anche dei più giovani. I quali hanno bisogno di miti e di esempi su cui formarsi come cittadini adulti e consapevoli di che cos’è la comunità in cui vivono, di come s’è formata l’identità che appartiene a loro e a noi e di come proiettare tutto ciò nei nuovi scenari della storia.
 

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