Alberto Brambilla*
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Busta paga più pesante, non c’è solo il cuneo fiscale

di Alberto Brambilla*
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Venerdì 16 Dicembre 2022, 00:05

Durante la campagna elettorale il problema in Italia - per partiti politici, Confindustria e sindacati - sembrava essere uno solo: il cuneo fiscale e contributivo. Oggi, dopo la presentazione della manovra di bilancio, il mantra del cuneo è di nuovo sugli scudi mentre la più grande riduzione del carico fiscale e del costo aziendale dal 1986, impostata dal governo Draghi con il decreto Aiuti Bis e proseguita dal ministro Giorgetti con il decreto Aiuti Quater, pare non interessi né a Landini né a Bonomi.

Eppure, come abbiamo più volte sottolineato, i politici (da Enrico Letta a Berlusconi) e soprattutto i sindacalisti e Confindustria dovrebbero sapere come si fa una busta paga e avere ben chiaro il perché della differenza tra netto in busta e costo aziendale; dovrebbero sapere che il 75% dei lavoratori dipendenti che dichiarano fino a 26mila euro lordi e ai quali vorrebbero ridurre il cuneo, non sono oppressi dalle tasse per il semplice motivo che ne pagano talmente poche che per garantire loro la sola spesa sanitaria, 2.070 euro pro capite, il resto dei contribuenti - e in particolare i 5 milioni che dichiarano oltre 35mila euro lordi - devono versare ben 58 miliardi l’anno. Poi ci sono tutte le altre funzioni a partire da scuola e assistenza: forse non è il caso parlare di oppressione.


Il sospetto del totale disinteresse delle cosiddette parti sociali e dell’opposizione alle novità dell’Aiuti Quater è che loro vorrebbero ridurre il costo del lavoro attraverso la decontribuzione di una parte dei lavoratori scaricandone i costi su tutti gli altri cittadini; mentre il citato decreto dà alle aziende, ognuna per le sue possibilità, la facoltà di alleggerire il costo del lavoro di circa il 15%, offrendo 3.000 euro più altri 200 euro del buono-benzina totalmente esenti da tasse e contributi. In pratica, se un datore di lavoro volesse dare 3.200 euro netti in busta, senza i citati decreti costerebbe all’azienda circa 6.720 euro perché ci si dovrebbero pagare i contributi sociali e un po’ più di tasse, oltre al fatto che aumenterebbe il valore del Tfr e di altri istituti contrattuali. Con la norma Giorgetti l’azienda spende 3.200 euro e il dipendente incassa 3.200 euro: tutt’altra cosa rispetto alla decontribuzione al 2, al 3 o anche al 4 per cento. Un miraggio per un Paese che non ha uno straccio di politica industriale da 25 anni salvo episodi eccezionali (Industria 4.0), e che in trent’anni è l’unico ad aver perso il 2,9% di potere reale di acquisto dei salari nonostante il 97% dei lavoratori sia coperto da contratti nazionali firmati dalle parti sociali. 


Forse qualche domanda Landini e Bonomi se la dovrebbero porre; tanto più che il differenziale di produttività tra Italia e i nostri maggiori competitors è di 1 a 5 ogni anno.

Finalmente, quindi, le vecchie 500mila lire di cui all’articolo 51 comma 3 del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir) del lontano 22 dicembre 1986, grazie a Draghi prima e a Giorgetti poi si sono trasformate in 600 euro con il decreto Aiuti Bis e poi in 3.000 euro con l’Aiuti Quater, oltre a 60 euro di buono trasporti e 200 euro di buono benzina. 


Ovviamente si tratta di una “liberalità” e non di un obbligo per il datore di lavoro: serve ad aiutare i propri dipendenti a contenere l’impatto dell’inflazione sui salari, considerando che i contratti collettivi in corso non potevano prevedere una inflazione così alta e che circa il 33% dei lavoratori è in attesa dei rinnovi contrattuali. Ebbene, la circolare dell’Agenzia delle Entrate del 4 novembre scorso, nelle 10 pagine (ne sarebbe bastata una sola con un titolo chiaro) ha paradossalmente reso più complicato lo schema precisando che il datore di lavoro deve acquisire e conservare la documentazione comprovante l’utilizzo delle somme da parte del dipendente coerenti con le finalità previste dalla legge (utenze ad uso abitativo di immobili di proprietà del dipendente, coniuge o familiari a condizione che ne sostenga effettivamente le relative spese) e che in famiglia solo uno dei componenti può ottenere il beneficio che riguarda i lavoratori dipendenti e i percettori di reddito da lavoro assimilato a quello da lavoro dipendente, vale a dire collaboratori coordinati e continuativi, amministratori, tirocinanti.


Un’imposizione che di certo non facilita la decisione dell’imprenditore. La speranza è che, nonostante i tortuosi percorsi imposti dalla burocrazia, l’utilizzo dell’articolo 51 del Tuir fermo da oltre 36 anni possa diventare una parte di reddito per tutti i lavoratori, liberi professionisti e autonomi compresi, esente da Irpef e da contributi sociali (quindi non genera quote di pensione né incide su ferie, Tfr e così via), rispondendo in modo esaustivo al mantra del cuneo fiscale. L’istituzionalizzazione dei 3.260 euro l’anno esenti (il cumulo dei benefici sopra descritti), quale rimborso forfettario per le spese di produzione del reddito, consentirebbe una riduzione del costo del lavoro per i redditi fino a 26 mila euro lordi (circa il 75 di tutti i contribuenti) del 15% netto l’anno, soppiantando e sostituendo sia la costosa e diseducativa decontribuzione che già oggi costa ai contribuenti onesti circa 24 miliardi l’anno sia la flat tax. Sarà tuttavia necessario un’armonizzazione con la normativa sui fringe benefit e sul welfare aziendale per semplificare e ridurre ulteriormente il costo del lavoro anche per i redditi sopra i fatidici 35mila euro. 


*Presidente Itinerari Previdenziali
 

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