Cosa c’è dietro l’inflazione esplosa nel 2022? E in che tempi il calo dei prezzi energetici dai picchi dello scorso anno si sta trasmettendo ai clienti finali? Queste domande - che probabilmente rimbalzano nella testa del consumatore medio - se le è fatte anche il ministero dell’Economia in uno specifico focus inserito nella Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza. Le conclusioni dei tecnici di Via Venti Settembre sono molto dettagliate ma si possono sintetizzare in un paio di indicazioni principali. La prima: lo scorso anno le imprese di alcuni settori hanno anticipato gli aumenti per tutelare i propri profitti, i quali quindi - soprattutto in alcuni settori - hanno contribuito in notevole misura all’inflazione interna che poi si è manifestata. Un contributo che spiega oltre il 60 per cento del fenomeno, misurato attraverso il cosiddetto “deflatore del valore aggiunto”. Secondo: a partire dalla primavera di quest’anno la tendenza si è invertita e dunque la spinta dei profitti sui prezzi sta venendo meno, in un contesto in cui il rialzo dei tassi operato dalla Bce penalizza la domanda di beni e servizi.
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IL PICCO
All’origine di tutto c’è naturalmente la crescita senza precedenti dei prezzi di energia elettrica e gas, con un punto massimo raggiunto nell’estate del 2022 e poi la progressiva diminuzione; i livelli restano comunque più alti rispetto ai valori storici degli anni 2015-2019.
L’approfondimento passa poi a guardare più da vicino la catena di trasmissione dei prezzi e si sofferma in particolare «sulla dinamica del mark-up e della quota profitti, per valutare il loro ruolo nelle pressioni inflazionistiche interne». L’indicatore preso in considerazione è il deflatore del valore aggiunto, che tiene conto dell’andamento dei prezzi sia della produzione che dei consumi intermedi. Utilizzandolo si può misurare il contributo delle retribuzioni e dei profitti alle tendenze inflazionistiche. Dopo una fase, quella del 2021, in cui le prime erano leggermente cresciute mentre i secondi si erano contratti, l’anno successivo i profitti hanno rappresentato più del 60 per cento dell’aumento complessivo del deflatore. La Nadef sottolinea quindi «la tendenza dei margini di profitto, in quel periodo, a rafforzare le pressioni interne sui prezzi, contribuendo attivamente all’inflazione». In parole povere, i prezzi finali sono cresciuti ben più dei costi. Le imprese in qualche modo hanno giocato d’anticipo o per dirla con il Mef «a fronte delle perdite subite nel 2021 e trovandosi a fronteggiare un’inflazione più persistente del previsto, hanno rivisto le proprie aspettative, modificando le strategie di prezzo per tutelarsi da possibili ulteriori forti aumenti dei prezzi degli input».
I TASSI DI INTERESSE
Nel focus viene poi osservato che la pressione degli utili sui prezzi è stata in realtà molto differenziata nei vari settori. Quelli in cui c’è stata la più rapida crescita dei profitti, risultati quindi «superiori alla norma», sono l’industria estrattiva e la fornitura di energia elettrica e gas, seguite con incrementi un po’ più contenuti, dall’agricoltura e dai servizi finanziari e assicurativi (anche grazie all’aumento dei tassi di interessi). In questi ambiti il contributo dei profitti al deflatore è stato superiore al 90 per cento. Commercio (che comprende la ristorazione) e trasporti hanno avuto una crescita continua dei profitti su tutto il periodo, anche se più moderata, mentre la manifattura ha recuperato dalla seconda metà del 2022, compensando la perdita iniziale.
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