Tiziana, l'infermiera di Civitavecchia al fronte che non può baciare i figli

Tiziana, l'infermiera di Civitavecchia al fronte che non può baciare i figli
di Giulia Amato
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Giovedì 23 Aprile 2020, 11:11
«Mentre vado al lavoro cerco di concentrarmi, di trovare lucidità. E' fondamentale per tenere alta la guardia e garantire assistenza di qualità ai miei pazienti». Tiziana Artusi ha 34 anni, è infermiera al reparto Covid del San Paolo e mamma di due bimbi di 2 e 7 anni, ma sa che ora, quello di madre, è un sentimento che può permettersi solo a distanza. La sua attenzione è infatti proiettata sul proteggere se stessa, i suoi cari e i suoi pazienti, in maggioranza anziani fragili. Tiziana è in trincea da quando il maledetto, come lo chiama lei, si è diffuso nel reparto di Medicina dell'ospedale e la sua vita è cambiata. «Quando ho saputo che sarei andata a Medicina - dice - ho avuto vari pensieri. Inizialmente ero spaventata. Il virus aveva già invaso il reparto e sapevo che sarebbe stata dura: ma io non faccio l'infermiera, sono un'infermiera. E' il mio motto».
Ogni turno è una battaglia che inizia nell'atrio del San Paolo con la misurazione della temperatura. «Mentre vado l lavoro mi concentro su quello che dovrò fare e ciò mi aiuta a essere lucida. Nell'atrio però la tensione sale. Il collega si avvicina, ti misura la temperatura e il tuo unico pensiero è quello di non avere la febbre». Superato il test, arriva il momento più delicato: in un locale allestito appositamente ci si prepara per prendere servizio. «Sopra la divisa - racconta Tiziana - indosso calzari fino al ginocchio, cuffia per capelli, tuta, mascherina ffp2, occhiali, visiera e guanti. Per riconoscerci ci scriviamo il nome sulla tuta. Da qui inizia la lotta e divento una sorta di robot che esegue manovre su pazienti che non riescono a vederti, che soffrono e che a volte se ne vanno senza un parente accanto. So di non potermi sostituire a un familiare, ma tenergli la mano, fargli sentire che ci siamo in un momento così drammatico è l'unico gesto possibile. Veder morire persone da sole, mi ha segnato».
Ma non mancano piccoli momenti di gioia, quelli che danno coraggio e spingono ad andare avanti. «L'esperienza più forte - dice - l'ho vissuta quando ho fatto fare una videochiamata a una paziente al figlio e al nipotino. Vedere la gioia nei loro occhi è stato un regalo speciale». Nel reparto, durante il turno, ci sono tante situazioni da affrontare e i dispositivi ingombranti non aiutano. «Passate le prime ore - continua l'infermiera - stanchezza e fastidio si mischiano. Il cappuccio della tuta ovatta l'udito, le mascherine la voce: per parlare con i colleghi devi urlare. Poi subentra la sete ma ciò significherebbe manipolare i dispositivi col rischio di contaminarli. Insomma, per ore sei intrappolata. A fine turno, ti spogli con mille accortezze e solo quando hai gettato l'ultimo presidio nel bidone puoi tirare un sospiro di sollievo». A casa l'aspettano il compagno e due bambini che prima di abbracciarla devono attendere che la mamma si decontamini: «Una doccia bollente e finalmente posso stare con i miei figli. Ma niente è più come prima. Dormo in stanza da sola, evito di baciarli e carezzarli, non possono assaggiare ciò che sto mangiando. Piccoli gesti che mancano. Maledettamente».
 
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