Palazzo Spreca era vincolato
e il Comune non poteva venderlo

Palazzo Spreca era vincolato e il Comune non poteva venderlo
di Silvana Cortignani e Alessia Marani
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Martedì 5 Novembre 2013, 17:36

VITERBO - Dietro l’affare Palazzo Spreca si nasconde una grave “distrazione” del Comune di Viterbo.

Che ora potrebbe rimediare chiedendo di tornare in possesso del complesso immobiliare ceduto in due distinte tranche, nell’89 e nel 2000 (per 100 milioni di lire), a un privato senza che ciò fosse consentito dalla legge.

Già perché stando alle indagini della Procura, scattate dopo il recupero delle 14 Virtù Profane trafugate da una sala al primo piano (la omonima “Spreca” dell’edificio che affaccia su via Santa Maria Egiziaca) e finite in mano a un antiquario spoletino, nell’atto di vendita stipulato tra il Comune e l’acquirente, non comparirebbero i due vincoli dei Beni architettonici che gravano sull’immobile: un primo, ope legis, in quanto bene appartenuto alla Chiesa e ceduto allo Stato, e uno diretto risalente al 31 gennaio del 1910.

Vincoli illimitati nel tempo che avrebbero dovuto rendere inalienabile il bene. “Distrazione” a cui a cascata ne sarebbero seguite altre, non meno grossolane e clamorose.

Come, per esempio, il mancato inventario di suppellettili, fregi, capitelli, affreschi e arredi che erano all’interno e di cui non c’è più traccia.

E per risalire ai quali (o almeno a una parte) la polizia giudiziaria del Riello ha dovuto attingere a testi anche del 1800. Scrive il Munoz: «In esso si conserva un vasto salone adorno di pitture di grande interesse (...) una sala al primo piano di 6 metri per 12 (...)».

Si parla di stemmi della famiglia Paci con colomba e alloro scomparsi, senza contare la mobilia che doveva appartenere all’attigua ex chiesa di S. Maria Egiziaca, oggi trasformata in una palestra, col solaio ribassato di 2 metri per acquistare volume. Basta farsi un giretto nel retro della struttura (con accesso dal chiostro ex Eca, ente comunale d’assistenza) per assistere al paradosso: il porticato dell’ex convento del Buon Pastore (di cui l’ex monastero di S. Maria Egiziaca doveva fare parte) che a un certo punto termina confinando con la palestra; le finestrelle di questa che sbucano dal piano seminterrato sulla parete del chiostro.

Nel cortile una tribuna in cemento costruita accanto a un albero secolare a cui sono state recise le “ingombranti” radici. E altri misteri: le tre campane del 1622, 1629 e 1687 «esempi dei fonditori viterbesi» sparite. Le indagini sono agli sgoccioli. E anche se alcuni reati sono prescritti (mai i vincoli), dal Comune ci si aspetta almeno uno scatto d’orgoglio. E una denuncia alla Corte dei Conti.

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