PERUGIA - «Usavo solo WhatsApp, poteva bloccarmi». Così un condannato per stalking, fa ricorso per ottenere uno sconto di pena, ma la Corte d'appello conferma la condanna di primo grado. È finita così ieri l'udienza d'appello nei confronti dell'uomo accusato di aver reso un inferno la vita della ex moglie, attraverso continui messaggi su WhatApp. A lungo, a partire dal 2019 e fino al divieto di avvicinamento e all'arresto, l'uomo ha inviato numerosi messaggi alla ex, madre dei suoi tre figli e assistita dall'avvocato Massimo Rolla: «Messaggi di natura intimidatoria, contenenti minacce di vario tenore anche esplicite di morte, e gravemente offensivi, appellandola con epiteti particolarmente ingiuriosi», ha riassunto la procura nel capo di imputazione.
Accuse che lui non ha negato, ma – assistito dagli avvocati Luca Brufani e Alberto Metallo – ha cercato di ridimensionare con una tesi decisamente alternativa, ma che fa riflettere su come l'innovazione tecnologica possa cambiare anche l'approccio alla definizione dei reati. La difesa, infatti, chiedendo di riqualificare l'accusa in quella (di minor gravità) di molestie si è fatta forte di una recentissima sentenza della prima sezione penale della Corte di cassazione che, lo scorso giugno, ha spiegato come una persecuzione via social, più virtuale che reale, quindi, sia in qualche modo aggirabile dalla vittima. «La possibilità per il destinatario della comunicazione di sottrarsi all'interazione immediata col mittente e di porre un filtro alla comunicazione a distanza – si legge nella massima della sentenza numero 40033 del 2023 -, permettendogli di decidere di non essere raggiunto dalla stessa se non in un momento in cui decide liberamente di farlo, rende tale forma di comunicazione oggettivamente meno invasiva di quella effettuata a mezzo del telefono e più vicina a quella epistolare.