Lavoro in rosa, nel 2022 oltre 600 mamme costrette a lasciare l'impiego

Secondo uno studio Aur, due casi su tre lo fanno per condizioni incompatibili con la famiglia. Pesano assenza di rete familiare e costi per nidi e baby sitter

Lavoro in rosa, nel 2022 oltre 600 mamme costrette a lasciare l'impiego
di Fabio Nucci
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Domenica 8 Ottobre 2023, 09:09 - Ultimo aggiornamento: 09:31

Crisi demografica e riduzione della popolazione attiva sono due feonomeni che si ricollegano anche alla condizione femminile, lavorativa e non. Non è una questione d’altri tempi, anzi, l’ultimo quaderno Aur curato dalla ricercatrice Enza Galluzzo dimostra quanto il tema sia attuale e centrale nel dibattito su demografia e aspetti sociali dell’attuale fase economica. «Il ritorno alla normalità e la conseguente ripresa dell’occupazione cui si assiste nel 2022 cambia poco per le donne», osserva nella premessa Rosita Garzi, consigliera di parità della Regione per la quale molte delle problematiche che interessano l’universo femminile persistono.
Dopo lo stravolgimento operato dalla pandemia, il mercato del lavoro lo scorso anno è stato caratterizzato da una generale ripresa che non sembra aver dato la svolta all’occupazione femminile con la quota di inattività al 36,9%. «Nel 2022 si avvia un tenue recupero», spiega Enza Galluzzo nel focus “Il diritto delle donne di lavorare”. «Tra le donne umbre l’inattività è diminuita rispetto all’anno precedente di neanche un punto e anche se un andamento similare si riscontra tra gli uomini il gap di genere resta a due cifre, oltre 13 punti». La distanza è consistente in tutte le classi di età e la meno colpita dall’inattività per entrambi i generi è la 35-44. «Oltre alla fascia dei giovanissimi, nella classe tra i 55 ed i 64 anni l’inoccupazione femminile coinvolge una percentuale elevata delle donne di tale età (41,9%) mentre la percentuale degli uomini si attesta al 30,3%», spiega Galluzzo.
Nonostante un tasso di disoccupazione femminile in calo (8% nel 2022), preoccupa “l’area dello scoraggiamento” che per le donne resta ampia. «Persiste una forte discontinuità del lavoro delle donne con l’avvento dei figli – evidenzia Garzi - che si traduce in una diminuzione delle opportunità e alcune volte in una rinuncia e sottrazione dal mondo del lavoro». La ricerca Aur, infatti, si concentra anche su tale aspetto individuando nel 2021 – sulla base dei dati Inl - 610 mamme che hanno lasciato il lavoro e in due casi su tre lo hanno fatto per la difficoltà a conciliare i tempi vita-lavoro, fenomeno che la consigliera Garzi indica come «una delle tante cause del fenomeno della bassa natalità». Lo studio Aur indica che il 44% delle donne che si dimettono lo fanno per problematiche legate ai servizi di cura, mancando una rete parentale di supporto, stante gli elevati costi di “nidi” e baby sitter. Il 22%, invece, adduce condizioni di lavoro “particolarmente gravose o poco compatibili con le esigenze di cura della prole”. «La maternità pone una contraddizione nel mondo del lavoro», scrive Galluzzo. «Se da un lato il calo della natività e la diminuzione della forza lavoro porta l’attenzione sull’importanza della procreazione, dall’altro le donne che hanno figli risultano svantaggiate». Il tasso di occupazione delle madri, infatti, è inferiore a quello delle donne senza prole in tutta Italia e in Umbria nel 2022, su 100 donne tra i 25 e i 49 anni occupate senza prole ce ne sono solo 80 con un figlio in età prescolare. «Il rapporto tra tasso di occupazione delle madri e quello delle donne senza figli comunque più alto della media italiana», aggiunge.
Il pericolo dietro l’angolo si chiama “scoraggiamento”, fenomeno legato alle minori possibilità occupazionali delle donne. «Nella realtà regionale pesa ancora molto - sostiene Enza Galluzzo – ma leggendo il tasso di inattività per titolo di studio (15-64 anni) si deduce che un alto livello di istruzione protegge sia uomini che donne da tale fenomeno.

Il tasso di inattività delle laureate quasi si dimezza rispetto a quello delle diplomate e quest’ultimo si dimezza ulteriormente rispetto a titoli più bassi». Al crescere del livello di studio, inoltre, si abbassa il gender-gap che dai meno istruiti ai “super titolati” passa da 24 a 5 punti.

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