Roma, il paradosso di Eusebio: giocarsi il posto contro i più forti d’Europa

Roma, il paradosso di Eusebio: giocarsi il posto contro i più forti d’Europa
di Mimmo Ferretti
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Martedì 27 Novembre 2018, 09:30 - Ultimo aggiornamento: 12:33

Eusebio Di Francesco cammina spedito, altro che passettini incerti sul filo del rasoio. «Ho sempre sentito da parte della società grande fiducia», replica a chi gli chiede conto della sua posizione al vertice della Roma. Non dice “sento” ma “ho sentito”, e (forse) è solo un lapsus temporale. Di sicuro, non si sente in bilico, anche se mai e poi mai direbbe una cosa diversa. Sa, in realtà, che il suo destino (il destino di tutti i tecnici) è appeso ai risultati, ma evita di ricordarlo. E sa che una doppietta di altri capitomboli, specie in questa settimana, potrebbe segnare il suo futuro. «Il calcio è il calcio...», sussurra. Chiaro? Sa anche, però, che centrare la qualificazione agli ottavi di Champions gli regalerebbe ossigeno vitale. Ecco allora che, paradossalmente, la partita di stasera diventa più importante per lui che per la Roma. Perché la Roma continuerà ad esserci con o senza la Champions, mentre non sta scritto da nessuna parte che Di Francesco con un altro paio di figuracce continuerà ad essere l’allenatore della Roma. Traduzione: la Champions, la sfida contro i campioni d’Europa per sentirsi davvero al riparo da brutte sorprese. Un paradosso e bel rischio, se ci pensate bene.

PAROLE E CAVOLATE
«Ho sempre sentito da parte della società grande fiducia» vuol dire che il club, in primis il ds Monchi, l’ha messo in discussione. Tutto vero, a livello pubblico; è infantile, però, pensare che nessuno a Trigoria si sia interrogato sul suo operato. Perché lo impone la logica della gestione di una società: valutare, sempre e comunque, il rendimento di un tesserato. E anche questo Eusebio lo sa alla perfezione. Solo che non ci pensa, non vuole pensarci, preferendo concentrarsi solo sul suo lavoro. Continuando a battere più su tasti mentali che tecnici. Tipo la cattiveria, la determinazione che non ci sono. «E che non si comprano al supermercato. L’allenatore è lo stesso che ha portato la squadra ad essere sempre aggressiva, ma la cattiveria è qualcosa di astratto. Se calci in porta ridendo non fai gol. La determinazione è qualcosa che si può allenare: vuol dire che l’allenatore deve raddoppiare il suo lavoro. Ma personalmente mi faccio un esame di coscienza ogni giorno». Come dire: io ci ho provato in tutte le maniere, continuerò a farlo, ma sarebbe bene che qualcuno (i giocatori) si applicasse di più. Magari con meno sorrisi. Solo che a forza di “accusare” sempre i propri calciatori, poi si trova a dover fare i conti con Kolarov. Che, chiamato in causa, smentisce il tecnico che aveva rimproverato alla squadra di non aver avuto voglia di vincere la partita di Udine. «La voglia di vincere non è mai mancata, nemmeno agli altri. Ci può stare di perdere una partita o due, ma nessuno gioca per perdere», il virgolettato del serbo.
Dettagli, forse. Ma in questo delicato momento occorrerebbe fare attenzione anche alle cose apparentemente meno importanti. La comunicazione, in certi casi, diventa fondamentale per non acuire le situazioni: Di Francesco, sotto questo aspetto, è stato talvolta fin troppo sincero, schietto, genuino. «Mettiamoci tutti, a partire dal sottoscritto, qualcosa in più e raddoppiamo gli sforzi. Non possiamo sempre abbatterci e mollare, siamo già usciti da queste situazioni ma dobbiamo trovare maggiore continuità. Il nostro difetto più grande, l’ho detto mille volte, è proprio la continuità. Tra le tante cavolate che dico, questa l’ho azzeccata...». Chissà se gli basterà per restare allenatore della Roma.
 

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