Morto Luca Ronconi, una vita per la sperimentazione

Morto Luca Ronconi, una vita per la sperimentazione
di Rita Sala
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Domenica 22 Febbraio 2015, 09:29 - Ultimo aggiornamento: 24 Febbraio, 09:35

Milano è attonita. Luca Ronconi, anima artistica del Piccolo Teatro, è morto ieri sera verso le 21.

Il grande regista, nato a Tunisi, ma romano a tutti gli effetti, 82 anni, era malato da tempo. Costretto alla dialisi ogni due giorni, sembra sia stato indebolito da un virus contratto negli ultimi tempi. Reduce dal suo ultimo successo, La Lehman’s Trilogy, dal testo di Stefano Massini, il maestro era comunque apparso, in occasione delle ultime prove dello spettacolo, ennesima maratona teatrale, come sempre bello, della bellezza ascetica, incorniciata di capelli candidi, che aveva assunto nella senilità. La serenità quasi zen con la quale parlava, spiegava, rispondeva alle domande e alle contorsioni degli attori, senza lasciarsi andare alle insofferenze cui era abituato in passato, la motivava con la rigida disciplina fisica e mentale alla quale era costretto. Si diffondeva quasi acribicamente sull’alimentazione che doveva seguire, oltremodo controllata, e sull’esercizio costante del cervello, chiamato a essere, più che mai elemento portante di una grande e difficile personalità indebolita dal male.

IL RITRATTO

Ronconi aveva frequentato l’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio d’Amico di Roma, diplomandosi in recitazione. E come attore fece il suo esordio sulle scene in Tre quarti di luna, per la regia di Luigi Squarzina.

Lavorò poi con Orazio Costa, Giorgio De Lullo, Michelangelo Antonioni, ma covando in cuore una pervicace insoddisfazione espressiva: «Mi accorgevo - raccontava - di voler dire e voler fare molto di più e molto meglio. Mi mancavano tante cose».

Regista in proprio lo divenne nel 1963 con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volonté. Fu però l’Orlando Furioso presentato al festival di Spoleto del 1969, in una versione sconvolgente, dinamica, inaspettata, con le scene di Uberto Bertacca e la traduzione dell’Ariosto firmata da Edoardo Sanguineti, a dargli in un attimo la fama nazionale e internazionale. Nel 1974 curò, di quello spettacolo, la trasposizione cinematografica, avendo nel cast interpreti del calibro di Mariangela Melato e Massimo Foschi.

LA CARRIERA

Era l’avvio di una carriera immensa che avrebbe portato Ronconi a dirigere teatri stabili, curare allestimenti lirici, istituire e condurre laboratori “rivoluzionari”, diventando in breve il nume riconosciuto della scena italiana.

Negli anni Settanta spettacoli già storici: L’Orestea di Eschilo, Utopia da Aristofane, Baccanti di Euripide, la Torre di Hugo von Hofmannsthal. E poi Ignorabimus di Holz (1986) e Tre sorelle di Cechov (1989), Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus (1991). Famosi i Giganti della montagna (di Pirandello) curati per Salisburgo nel 1994. A Roma (dove ha diretto lo Stabile dal 1994 al 1998) produsse uno degli eventi più alti del suo modo di intendere la regia, Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana, di Gadda, sezionando con la lucidità di un anatomista il romanzo, fino a trasformarlo in grande teatro.

Nel 1999 dopo la scomparsa di Giorgio Strehler, passò al Piccolo di Milano con Sergio Escobar. Che dice: «Sono sconvolto, 34 anni di lavoro insieme, ora occorre affrontare il lutto»). Nella capitale lombarda ha firmato spettacoli quali La vita è sogno di Calderon de la Barca, il Sogno di Strindberg, Infinities, la Celestina, e, appunto Lehman’s Trilogy. L’anno scorso a Spoleto dove regolarmente offriva uno spettacolo al festival diretto da Giorgio Ferrara aveva curato la messa in scena di Danza macabra di Strindberg, interpretata dallo stesso Ferrara e da Adriana Asti. Sono invece del 2006 i cinque spettacoli firmati per i Giochi Olimpici invernali di Torino. Con Ronconi, attivo anche nella lirica, nel cinema e in televisione, se ne va il nome attualmente più noto, sul piano internazionale, della nostra scena.

L’UOMO

Snob, poco incline alla familiarità, polemico senza strepito, coltissimo, Ronconi amava ripetere che «si sopravvive meglio se le direzioni non sono una sola, ma diverse». Per questo andava “oltre”, cercava il grimaldello per scassinare testi e interpreti senza tenere troppo in conto la fragilità umana. «Voglio vedere se al di là di una comune convenzione generazionale - diceva - ci siano degli spiragli verso il futuro». Con gli attori non era tenero, ma tutti, o quasi, hanno spasimato per lavorare con lui, con gli assistenti alla regia si comportava più da manager che da maestro, lasciando a loro il compito di acquisire il metodo, le scansioni, le visioni. E come accade per ogni caposcuola, Eduardo De Filippo ad esempio, aver collaborato con lui, anche solo per qualche settimana, è diventato il vanto di molti curricula. «Non mi sono mai considerato un maestro - ha sintetizzato - ma certo, se altri pensano che tu lo sia devi, in qualche modo, tenerne conto». Questo apparato intellettuale e intellettualistico lo ha forse un po’ allontanato dall’umanità spicciola. Condivideva il quotidiano con poche persone e via via se quelle più care venivano a mancare avvertiva la solitudine. Una notte all’aeroporto di Fiumicino, dopo la cancellazione di un volo per Bruxelles, confidò qualcosa di sé: «Forse non mi conosco nemmeno io. Forse sto cercando un luogo o una persona che sappiano dirmi la verità su di me».