Stefano Poda firma la regia che apre in mondovisione, il 16 giugno, il Festival di Verona:
«Con trecento mimi, laser e installazioni, il dramma di Aida diventa universale»

Anna Netrebko e Yusif Eyvazof sono i protagonisti dell'Aida che celebra la centesima edizione del Festival dell'Arena di Verona. In platea Sofia Loren, sette ministri, e personaggi dello spettacolo. In video Rai 1 Milly Carlucci, Alberto Angela e Luca Zingaretti. il regista Poda: la lirica parla a tutti

L'Aida con la regia di Stefano Poda che il 16 giugno inaugura in mondovisione l'Arena di Verona
di Simona Antonucci
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Giovedì 15 Giugno 2023, 23:51 - Ultimo aggiornamento: 16 Giugno, 07:07

«Il palcoscenico sarà un piccolo universo carico di mille esperienze, tecnologico, dinamico, cangiante, per sviluppare un viaggio riconoscibile, familiare, a misura d’uomo: un cammino dantesco, da un mondo in conflitto a una storia intimista. Conciliare questi due lati, grandiosità e intimità, è la sfida nell’affrontare un titolo come Aida». Il regista Stefano Poda presenta il suo allestimento intimista e hi-tech che celebra, venerdì sera, 16 giugno, davanti ai 14mila spettatori dell’anfiteatro e per un pubblico televisivo di tutto il mondo, la centesima edizione del Festival dell’Arena di Verona.

SOFIA LOREN

Otto titoli d’opera (tre in più dei cinque consueti), con oltre cento stelle del canto, e quattro gala, fino al 9 settembre. L’evento, trasmesso in mondovisione da Rai Cultura, andrà in tv alle 21, su Rai 1. Sul podio Marco Armiliato, sul palco trecento mimi che riverberano l’interiorità dei protagonisti: Anna Netrebko e Yusif Eyvazof. Dietro le quinte 19 telecamere, 2 steadycam, un drone e un centinaio di operatori. In platea una madrina d’eccezione, Sofia Loren, e poi cinque ministri, Matt Dillon, Gigliola Cinquetti, Orietta Berti, Iva Zanicchi, Morgan, e Jerry Calà, Lino Banfi, Fabio Testi. E in video Milly Carlucci, insieme con Alberto Angela e Luca Zingaretti. Inno nazionale e Frecce Tricolore in volo sulle piramidi fatte di luce, rovine del passato e del futuro tenute insieme da una mano-robot alta venti metri «omaggio a chi ha posato queste pietre e anche a chi smonta e rimonta lo spettacolo, al pubblico che applaude», spiega il regista Poda, cui è stato affidato questo nuovo allestimento di Aida, dopo quello storico del 1913 e il classico, firmato da Zeffirelli.

Lei ha definito la sua Aida intima e grandiosa: come concilia questi due momenti?

«I momenti interiori li risolverò col mio modo di ricorrere alle masse per moltiplicare e riverberarei scene molto intime vissute dai protagonisti. È come convertire il dramma individuale in un sentimento universale, attraverso il lavoro di attori, mimi, figuranti e danzatori: in questo modo il lavoro dei solisti e dei cantanti viene supportato e moltiplicato».

Lo spazio dell’arena è colossale...

«Ho pensato di realizzare una dimensione tragica in senso lato: tragico significa trasferire emozioni dal piccolo al grande e viceversa, in un passaggio dal singolo all’universale per tornare poi all’individuo. Questo è il senso dei capolavori del tragico, ed Aida ne è un simbolo. In questo senso, lo spazio dell’arena è perfetto perché si tratta di un modello archeologico ed archetipico di uno spazio storico-umano ma universale, in cui il singolo si perde pur vivendo di esperienze e ricordi involontari millenari».

Si parla di una guerra tra popoli fratelli: la ricongiunge alla cronaca di questi giorni?

«La cronaca di questi giorni è già purtroppo nota a tutti: il mio lavoro non è quello di rendere attuale qualcosa di antico, ma di mostrarne l’universalità attraverso i mezzi più puri del teatro in quanto tale».

Ricorre a mezzi ultramoderni. È necessario per avvicinare un nuovo pubblico?

«Avvicinare questi capolavori alla televisione o alle piattaforme è una battaglia persa, che produce risultati effimeri.

Invece, il mio obiettivo è portare la modernità e l’attualità a un livello diverso, astratto, universale. In questo modo si possono lanciare allo spettatore diversi spunti di riflessione e di collegamento, ma senza fornire risposte preconfezionate».

Ha aperto un dialogo  con gli allestimenti del 1913 e di Zeffirelli?

«Il dialogo a distanza è automatico, soprattutto nelle forme, nei colori, nella logistica e nella concezione. Il pubblico dell’Arena, che ospita il festival d’opera più importante al mondo, deve avere davanti tutte le opzioni e tutti i riferimenti. La revisione di immagini appartenenti all’immaginario collettivo è un processo tipico dell’arte, pensiamo per esempio a come diversi pittori hanno concepito differenti realizzazioni dello stesso identico tema: una Crocifissione presenta una impostazione da rispettare, ma non sarà la stessa se dipinta da Mantegna o da Raffaello».

Aida, che donna è?

«Aida è una eroina dal grande carattere. Vittima del potere, ma non per questo debole. È una lottatrice, e alla fine vincitrice».

In scena molte citazioni (elmi come teschi di Diamien Hirst) costumi stile Armani e Paco Rabanne: può spiegare?

«Le citazioni artistiche sono disseminate un po’ dovunque nei costumi. Per Aida ho voluto un eclettismo molto ricco e spinto quasi all’enigmatico: di quale civilizzazione stiamo parlando? Di che epoca? La risposta è semplice, stiamo parlando di noi in quanto epigoni di una civiltà millenaria che talvolta dimentichiamo. Dall’Egitto al Made in Italy, questa Aida vuole essere anche un omaggio a tutto il meraviglioso che può produrre l’ingegno umano».

E la Divina Commedia in che modo l’ha ispirata?

«La Commedia è per me il segno del Viaggio per eccellenza. Un titolo così elaborato, con una curva dall’abisso all’estasi così vertiginosa, è per me un grande viaggio attraverso gli stati dell’anima e del sentimento: si comincia sempre dall’inferno, che è il contatto con gli altri, fino ad arrivare alla purezza della visione della luce, come in Aida».

Mani giganti e piccole: che cosa rappresentano?

«Il simbolo di un’umanità che lotta e che prega è la grande mano pensata per questa Aida del Centenario: un’installazione d’arte antica e moderna al tempo stesso, per l’Arena e per uno spettacolo che sia l’unione di tutte le arti».

In scena niente blackface: la sua posizione?

«Io parlo di arte, non di battaglie. Quel che compone l’arte deve restar fuori dalle contese, altrimenti si finisce a Palmira».

L’uso della luce come rappresenta la sua scelta artistica?

«Il materiale più nobile per seguire l’andamento della luce è il trasparente: un palco che deve essere imponente ma senza pesare visualmente contro i gradini, che sono la vera scenografia. La luce dovrà sottolineare le forme non come decorazione, ma come elemento stesso della scena. Non dimentichiamo che la luce non ha corpo, e quindi è l’unico vero corrispettivo della musica».

Il debutto a Verona che cosa rappresenta nella sua carriera?

«Si tratta di una tappa molto sentita, posta a 15 anni dal mio rientro in Italia dopo che ero stato via altri 15 anni! E non dimentico che queste sono le mie zone...».

Questo spettacolo andrà in mondovisione: la lirica parla a tutti?

«Parla a tutti se è capace di avere un linguaggio suo, degno, convinto. Se cerca di imitare altri codici, diventa una brutta copia. Bisogna darle il giusto slancio, e diventa un veicolo dirompente capace di conquistare chiunque».

E lei come è stato conquistato?

«Mi interessa il teatro come spazio rituale di una comunità, sorta di cattedrale laica universale. Ed amo l’opera quando permette di infrangere la linea divisoria tra tutte le arti. Oggi più che mai mi accanisco a questa idea di opera come unità e totalità, ma soprattutto come genere a parte, il cui potenziale è stato appena in minima parte esplorato. L’opera può diventare una delle chiavi della spiritualità perduta, a patto di abbandonare la razionalità e il realismo che è stata la trappola del nostro tempo, vertiginosamente regredito dopo le promesse delle avanguardie del primo Novecento».

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