Luca Carboni: «Canto Gagarin e lo Spazio per capire meglio noi stessi»

Luca Carboni
di Rita Vecchio
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Giovedì 7 Giugno 2018, 13:59 - Ultimo aggiornamento: 28 Giugno, 01:06
Luca Carboni ritorna con un nuovo album, Sputnik, anticipato dal singolo Una grande festa. Titolo anomalo, dalla copertina futurista - disegnata da lui stesso - che tra la citazione di Marx e Freud, il testo dedicato ai figli e il ricordo del muro di Berlino, «è un disco vero nonostante i suoni finti», con un elettropop che in alcuni passaggi è molto spinto. Nove canzoni: un numero non casuale, amarcord del Carboni anni 80 e pensato come quando era solo vinile. Lo stesso Sputnik - che uscirà l'8 giugno - sarà, infatti, anche in vinile viola.

È un disco coraggioso?
«Coraggioso ed estremo. Senza chitarre, con l'elettronica che entra nella pelle e nell'anima nonostante synth e strumenti finti. Un disco vero pur essendo prodotto con suoni artefatti».

Usa la parola Sputnik. Ha scoperto la passione per il russo?
«È una bella lingua, no? Per l'aspetto grafico e il suono. La scelta anomala del titolo ricorda l'epoca stanziale e gli anni 60 della mia generazione. Ecco perché per la copertina mi sono ispirato ai manifesti di propaganda sovietica. E poi è una parola non americana, non figlia della cultura ricevuta e del pop che ascoltiamo».

Ce l'ha con gli americani?
«No, no. È che ne abbiamo fatto troppo uso. Volevo fosse uno stimolo, anche per i giovani che non hanno vissuto la Guerra Fredda. Vorrei che Sputnik diventasse un compagno di viaggio, che ci portasse idealmente in orbita senza però perdere di vista la terra. Per quello mi piace citare Gagarin con la sua terra vista da lassù, senza frontiere né confini».

E se fosse frainteso?
«Politicamente, intende? No. Parlo di storia, ma non è disco storico. Sono canzoni di uno che ha vissuto anni epocali. Dall'Apollo 13 agli armamenti nucleari, all'Italia divisa tra comunisti e democristiani. Il bambino di allora era inconsapevole della drammaticità del momento».

Però lei canta che parlare di sfiga proprio non si può e che Il mondo aspetta una grande festa, una bomba nucleare.
«Un gioco di parole, simbolico e ironico. Non politico. È una canzone d'autore travestita da tormentone pop. Credo ci siano delle cose da cambiare».

Quali?
«Il pop necessita dell'energia di allora. Io in copertina disegno una cabriolet, simbolo di un'epoca. Idealmente la nostra era la generazione che ha sfondato il muro di Berlino, come cito in Film d'amore. L'abbattimento del muro era la volontà di uscire dai luoghi comuni della politica più vecchia e di spaccare tutto».

Vive di ricordi?
«No. È che oggi il rap è diverso. Tutta la musica della mia generazione voleva uscire dall'ideologia dei cantautori. Ma siamo in un momento storico diverso, senza le divisioni che c'erano allora».

Beh, dire che non ci siano divisioni oggi sembra un eufemismo.
«Sì, ma il tipo di disagio è un altro. Allora vivevamo nel boom economico e la crisi aveva a che fare con la divisione tra capitalismo e comunismo. Oggi i problemi sono più di degrado ed economico».

Dove sono finiti Carboni e l'amore?
«L'amore c'è anche qui, anche se è sbagliato pensare che sia solo un disco d'amore».
Teme la competizione?
«Un po'. Sono consapevole del cambiamento che è normale ci sia. In testa alla classifica oggi ci sono i rapper. Fa parte del gioco, importante è non snaturare se stessi».

Dice che non si è snaturato, ma di fatto questo disco è diverso.
«Ho reinventato me e il pop senza sottometterlo alle regole».

E così lavora con i giovani.
«Mi piace ascoltarli. Nel disco c'è uno scambio generazionale con un punto di contatto: i germi della musica anni '80. Calcutta, Gazzelle e Giorgio Poi presenti in tre canzoni sono sì lontani anagraficamente, ma la nostra visione della canzone d'autore non è distante».

Le manca Dalla?
«Tanto. Più come persona che come artista, visto il patrimonio che ci ha lasciato. Mi ha insegnato a ricercare la perfezione dei testi, facendomi capire la forza di un pezzo».

È privilegiato ad averlo conosciuto?
«È stato Lucio a spingermi nella mischia: se non lo avesse fatto, non mi sarei messo a cantare, rimanendo solo autore. Ho però dovuto difendermi da lui».

Cioè?
«Non lo facevo entrare in studio quando cantavo o arrangiavo. E lui borbottava. Ho difeso la mia autonomia perché litigavamo sulle mie scelte di sound».

Da ottobre ritorna a suonare nei club. Che pubblico si aspetta?
«Che canta e che sa di ascoltare uno che fa musica senza distinzione di target o di strategie».

E se Sputnik non fosse capito?
«L'ho pensato. Credo che questo rischio non ci sia più, visto che Una grande festa è balzata da subito in testa alla classifica».
 
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