Giorni selvaggi, il surf come stile di vita: William Finnegan racconta come ha vinto il Pulitzer

Giorni selvaggi, il surf come stile di vita: William Finnegan racconta come ha vinto il Pulitzer
di Gabriele Santoro
7 Minuti di Lettura
Lunedì 4 Luglio 2016, 20:06 - Ultimo aggiornamento: 9 Luglio, 12:26
Il surf può essere una struggente ragione di vita, fisicamente estenuante e intrisa di gioia. Lo testimoniano le pagine dell'appassionante memoir Giorni selvaggi (66thand2nd, 25 euro, 496 pagine) del giornalista e scrittore William Finnegan, dal 1987 staff writer al The New Yorker. È appena arrivato in libreria, ma è un progetto letterario che ha alle spalle una gestazione lunga vent'anni. L'autore, cresciuto tra Los Angeles e le Hawaii, dà ai lettori la misura di un'ossessione, di un incanto, di una fede assoluta per la tavola e per le onde che rappresentano un modo di stare, rapportarsi e al contempo fuggire dal mondo.


Finnegan ha cominciato a surfare all'età di dieci anni, alle Hawaii dove il padre trasferì la famiglia, conquistando in acqua il rispetto dei coetanei nativi e cavalcando poi da grande viaggiatore le onde migliori nel Sud del Pacifico, in Australia, Asia e Africa. «In natura le onde non sono oggetti stazionari come le rose o i diamanti. Al contrario sono contemporaneamente l'oggetto del più profondo desiderio, dell'adorazione e anche il tuo avversario, la tua nemesi, finanche al tuo nemico mortale. Cavalcarle è una soluzione teoretica all'impossibilità di un problema complesso», dice lo scrittore.

L'autobiografia, che è anche storia sociale e una straordinaria esplorazione tanto fisica quanto intellettuale on the road, è stata insignita del Premio Pulitzer 2016 per il genere. Il surf è anche la costruzione di un linguaggio, di mappe ancora non disegnate: ed è esattamente quel che ci restituisce Finnegan, protagonista martedì alle 21 di un nuovo appuntamento del Festival Letterature, curato da Maria Ida Gaeta, presso la Basilica di Massenzio. Sul palco saliranno anche i cinque candidati al Premio Strega Europeo, giunto alla terza edizione: Mircea Cartarescu, Annie Ernaux, Kerry Hudson, Ralf Rothmann e Ricardo Menendez Salmon. Tutti gli autori leggeranno un proprio testo inedito sul tema della memoria, accompagnati dalla musica di Enrico Pierannunzi.


Finnegan, quali sfide le ha posto la scrittura di un memoir?
«Da giornalista è strano indagare le proprie memorie, e parlare della propria vita privata. D'abitudine il lavoro consiste nell'investigare, nel porre domande fuori di me. Si attinge a quello che restituiscono gli archivi dei giornali, ai diari e alle lettere per ricercare una verità storica. Ed è scioccante constatare quante lacune abbia la nostra memoria. Allora vai a rintracciare gli amici, i nemici e provi a negoziare tra quello che ricordano loro e quello che ricordi tu. The New Yorker Magazine, dove lavoro, è un dipartimento formidabile per il fact checking. Ho provato a fare lo stesso con la memoria. I momenti condivisi con gli amici, le persone amate, i familiari ovviamente erano fuori di registrazione. Li ho incisi per chiunque legga, raffigurando tutto ciò. Scegliere cosa mettere e cosa lasciare nella sfera della privacy è un processo creativo complesso».

Il surfista utilizza un linguaggio vernacolare vivido. In che modo ha reso accessibile quel lessico al lettore neofita?
«Questa è stata un'altra sfida decisiva: non rinunciare ai termini tecnici del lessico surfista senza inficiare la struttura e la leggibilità del testo. Ho fatto molte prove, sottoponendo spesso lo scritto al mio editor, a mia moglie, persone del tutto distanti dal surf: chiedevo loro di indicarmi i passaggi poco comprensibili, ed era una frustrazione. Credo sia una possibilità per avvicinare, educare il lettore generalista al linguaggio dell'oceano, delle onde e del mestiere del surfista. Già dopo i primi due capitoli si familiarizza con le descrizioni e penso si apprezzi la ricchezza del linguaggio. Era un'esigenza irrinunciabile per entrare nelle scene, per capire cosa significhi, cosa importi e le ragioni che animano la ricerca errante della cresta d'onda perfetta. La costruzione dell'aspetto psicologico nel rapporto con l'oceano è un processo lungo».

La ricezione di un enorme pacco di lettere, inviate da un amico d'infanzia, alimenta l'inizio del libro. Che cosa hanno rappresentato?
«L'arrivo di questo pacco è stato il punto di rottura, che in qualche modo mi ha costretto a misurarmi con quell'esperienza senza il timore dello stereotipo del surfista. Hanno avuto l'effetto della madeleine in Proust. Non avrei potuto archiviare l'apparizione di tutte queste lettere, relative all'adolescenza, così ricche di dettagli, centinaia di pagine. Quando ho pensato a come organizzare il testo, ho deciso che sarebbero state la spina dorsale del primo capitolo».

Che cosa vuol dire leggere un'onda e in che modo si sviluppa il lavoro intellettuale del surfista?
«Significa essere in qualche modo un oceanografo, avere memoria dell'acqua e delle onde in un posto specifico e negli altri luoghi esplorati, una sorta di mappa mentale. Si sviluppa una libreria immensa, un archivio di esperienze con l'oceano per comprendere che cosa farà l'onda in termini specifici, quanto sarà veloce, quanto potenza avrà, tutti i differenti angoli dell'acqua e sapere come verrà, dunque come surfare. Questa è la principale occupazione di un surfista, tutto sta nel pensare a che cosa farà poi l'oceano: essere nel posto giusto, sulla costa giusta al momento giusto. Ma anche nel punto esatto in acqua. Guardando i surfisti migliori ti domandi come sappiano, come prendano decisioni così velocemente. Essere i migliori equivale a comprendere il posto, le onde in generale prima e meglio di chiunque altro. L'ambiente diventa quasi un'estensione anatomica dei surfisti».

L'amicizia è il filo che tiene insieme i capitoli?
«Il surf è un giardino segreto, nel quale non è semplice entrare. La mia memoria sul conoscere uno spot, capire un'onda di solito è inseparabile dall'amico col quale ho tentato di scalare questa montagna. Sì, i capitoli che compongono il libro ruotano intorno ai rapporti di amicizia. Ero interessato a illustrarli mediante le parole. Di alcuni luoghi dove ho fatto surf a lungo non ho scritto una riga, perché non mi legava a loro nessun rapporto di amicizia. A Santa Cruz, in California, mi hanno rimproverato proprio per questo: “Non hai scritto nulla su questo luogo!” Avevo bisogno di un triangolo per la memoria: io, le onde e gli amici. Ci si ricorda vicendevolmente delle onde, delle cose accadute in acqua. Oggi il surf è ancora condividere progetti, viaggiare insieme per conoscersi».

Il 1968 è stato un punto di svolta nella sua vita, e anche per il mondo del surf.
«Il surf è stato contagiato dal Sessantotto. La rivoluzione della shortboard, proprio in quell'anno, arrivava dall'Australia e dalle Hawaii, e McTavish, pioniere assoluto della nuova tendenza, ne era il guru. La California, che era ancora la capitale dell'impero del surf, fu felice di convertirsi in massa alla nuova fede. La velocità e la super maneggevolezza delle nuove tavole cambiarono il modo di fare surf. L'avvento della shortboard, dunque fare surf nell'onda fino al punto più vicino di rottura, non era separabile dallo spirito del tempo, la gioventù inquieta ripensava e metteva in discussione questioni fondamentali. Da ragazzino ero interessato ai locali, ai gruppi e alla competizione nel mondo surfista. Alla fine degli anni Sessanta associavo il surf a un ideale di solitudine, di purezza delle onde perfette in un mondo incontaminato. Era un sentiero che ti conduceva lontano dalla civiltà, nel senso più antico della parola, verso una frontiera dimenticata da dio dove avremmo vissuto come moderni selvaggi. Non era la chimera del felice vagabondo, qualcosa di più profondo. Il rifiuto radicale dei valori del dovere e della realizzazione personale. Molti surfisti furono renitenti alla leva: era il rifiuto della guerra del Vietnam e il desiderio di ridefinire le nostre vite».

Un altro passaggio determinante della sua vita è stato l'approdo nel 1980 in Sudafrica, oppresso dalla segregazione razziale. Come ha messo insieme il surf e la rivolta contro l'apartheid?
«Iniziai a lavorare come insegnante a Città del Capo in una black high school. È stata un'esperienza molto intensa che ha cambiato la mia vita. Fino a quel momento mi ero dedicato alla finzione narrativa, al romanzo, lì ha fatto irruzione l'esigenza del giornalismo. Erano i giorni bui dell'apartheid. A scuola si produsse un forte conflitto contro lo Stato che sfociò in uno sciopero a livello nazionale. Nella mia scuola superiore si protrasse per tre mesi. Ci fu molta violenza. Alcuni colleghi e alunni vennero arrestati. Provavo un'ammirazione profonda per gli attivisti, fino a essere coinvolto nel movimento di liberazione. Ne sono uscito come un giornalista, mestiere che svolgo tuttora. In Sudafrica ho capito che sarebbe stato il mio lavoro, non ne sarei potuto uscire differentemente».

Al New Yorker oltre che come notista politico si occupa di inchieste. Riscontra successo il long form degli articoli di approfondimento sul web, è il modello da seguire? È di particolare interesse per esempio il suo lavoro sulla condizione dei lavoratori nei fast-food.
«È un giornalismo che richiede qualità e dunque tempo. La condizione in cui si è sviluppata quella inchiesta non è stata semplice. Ho dovuto costruire un rapporto di fiducia, perché sono lavoratori vulnerabili senza alcuna protezione sociale e non è facile vivere con quei salari a New York. Hanno mostrato molto coraggio e determinazione nell'affidarsi alla mia penna. Ho trascorso settimane con loro, vivendo la loro quotidianità dal posto di lavoro alla casa. Il pezzo ha avuto molto successo in rete e ben accolto dai lavoratori».
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