Potreste anche non conoscere il nome di Isao Takahata, fondatore con Miyazaki dello Studio Ghibli e a lungo suo complice. In questo caso la colpa, per così dire, è proprio del suo celebre socio. Ma se pensate che i colori netti, il tratto rotondo, l’esuberanza creativa di Miyazaki possano aver messo in ombra un talento portentoso quanto sfuggente, allora è tempo di scoprire Takahata, 78 anni e solo 5 film al suo attivo. Una figura che rispetto al nome di punta della Ghibli è davvero un po’ come l’altra faccia della Luna. Appartato, malinconico, meno luminoso, ma capace di suscitare meraviglie e inquietudini con una profondità rara nel cinema d’animazione.
La Luna del resto ha un ruolo fondamentale anche in questo
Intitolata in origine
Fino a quando dal bambù non iniziano a piovere anche oro e stoffe pregiate, e la piccola selvaggia che giocava con le rane e con i figli dei contadini, si ritrova suo malgrado alla corte dell’imperatore, circondata di ancelle e trasformata in una giovinetta aristocratica dalle maniere impeccabili quanto artefatte, mentre anche i suoi genitori si adeguano (comicamente) al loro nuovo status e lo stile del disegno si piega verso la caricatura...
Ma è solo l’inizio. Perché la sua bellezza suscita l’interesse per non dire il desiderio (i giapponesi sanno essere espliciti con molta eleganza) dei più alti dignitari e poi dell’imperatore stesso, in un crescendo di profferte e vanterie di cui la giovinetta saprà prendersi gioco con (involontaria) crudeltà. Per spingersi poco a poco, dopo un tentativo di fuga e la breve apparizione del suo primo amore, verso una consapevolezza sempre più dolorosa che culmina nel sorprendente epilogo “celeste”. In cui peraltro compare, innominato, Buddha in persona...
Si scopre infatti che la piccola nata dal bambù veniva appunto dalla Luna, regno delle essenze e della perfezione (ma anche del gelo, pare di capire), e alla Luna dovrà tornare. Rinunciando a tutto ciò che ha conosciuto sulla Terra, alla sua gioia e alle sue imperfezioni, ai suoi piaceri mortali e alle sue non meno mortali illusioni. Con uno strazio che l’arditezza stilistica di questo film costato otto anni di lavoro rende ancora più struggente.
Una meditazione sulla finitezza della vita, insomma, e sul suo irrinunciabile splendore, condotta con la semplicità e l’immediatezza del cinema d’animazione da uno dei pochi veri, grandi maestri di questa autentica arte popolare.