“Stranieri residenti” si apre ad una idea antisovranista di terra come di qualcosa di cui nessuno può rivendicare il possesso. Nemmeno gli Stati che oggi sono concepiti forzatamente come entità chiuse e determinate in modo definitivo, di cui non si concepisce più la mutevolezza storica, la definizione progressiva di confini e di identità che non sono rigide, aperte alla contaminazione di stirpi e di etnie che, nel corso dei secoli, si sono ritrovate a convivere e condividere una identità e una tradizione comune. Si tratta di una sorta di pregiudizio cognitivo dovuto alla totale ucronia dei mass media che guardano solo al presente senza interrogarsi sul passato e sul futuro.
Di Cesare riflette sul fatto che, per queste motivazioni, la migrazione è vista come “devianza da arginare, anomalia da abolire”. Una filosofia della migrazione cerca un equilibrio tra i partigiani dei confini chiusi e i fautori degli open borders, i sostenitori dell’autodeterminazione degli Stati o sovranismo e i sostenitori di una impraticabile e astratta libertà di movimento. Non si vuole contemplare “il naufragio dalla riva”, il caos della indistinzione degli Stati, ma si vuole concepire la migrazione come un flusso sganciato dal principio della sovranità. Il diritto alla migrazione va riconosciuto come atto esistenziale e politico nell’epoca del “tracollo dei diritti umani”. Uno scenario forse pessimistico se si guarda agli sforzi fatti, soprattutto dall’Italia, per accogliere nonostante le legittime e comprensibili paure e diffidenze dei cittadini minacciati da precarietà, crisi economica, esodo migratorio di portata esponenziale che insiste sull’Europa e terrorismo fondamentalista.
Certamente la filosofia deve recuperare molto rispetto all’abuso della parola “altro” declinata in un senso troppo disincarnato e astratto, con una idea di ospitalità come “istanza assoluta e impossibile, sottratta alla politica, relegata alla carità religiosa o all’impegno etico” delle anime belle. Per riguadagnare la categoria adeguata all’altro occorre ripercorrere la memoria di tre città antiche come Atene, Roma, Gerusalemme, dotate di tre tipi di cittadinanza ancora validi. E’ qui che la filosofia intrisa di ebraismo di Di Cesare offre la sua visione sorprendente rispetto allo stereotipo di un Israele trincerato nel suo privilegio e ostile all’altro. Dall’autoctonia ateniese e dalla cittadinanza aperta di Roma passiamo alla città biblica dove cardine della comunità è il gher, lo straniero residente, colui che abita. In un’ottica in cui la cittadinanza non è decisa dall’autoctonia ma viene generata dalla stessa ospitalità e dalla stessa accoglienza. Abitare non vuole dire per forza stabilirsi, stanziarsi. Né vuol dire assenza di radici, erranza. Essere cittadino deriva dalla prossimità dell’altro nella coabitazione concreta, dalla condivisione comune dello spazio più che da un astratto diritto alla condivisione della terra e del luogo.
Una visione sorprendente e nuova da parte di una filosofia che mostra la sua forte, ma inedita e non stereotipica, radice ebraica. Una visione utopica, ma così affascinante e riccamente documentata con le grandi lezioni e i grandi esempi del mondo antico. Una visione che provoca la politica a ripensarsi più coraggiosa e noi tutti a pensare in movimento e in divenire un mondo che spesso immaginiamo troppo statico e monolitico coltivando illusioni cognitive che non aiutano a comprendere e trovare soluzioni ai problemi legati a quello che più che un’epoca di cambiamento e un vero cambiamento d’epoca.
Donatella Di Cesare, Stranieri Residenti, Bollati Boringhieri, pp. 280, 19 euro
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