Il rilancio di Roma/Sabino Cassese: «Servono politici all’altezza e poteri speciali»

Il rilancio di Roma, Sabino Cassese: «Servono politici all’altezza e poteri speciali»
di Diodato Pirone
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Lunedì 21 Settembre 2020, 01:54 - Ultimo aggiornamento: 11:51

Professor Sabino Cassese, fino alla fine degli anni Venti del Novecento il 20 settembre era festa nazionale. L’Italia celebrava l’unificazione e al tempo stesso il “ritrovamento” di una Capitale che è unica al mondo e del motore del suo sviluppo. Non trova che sia importante ripristinare questa giornata di festa e di speranza?
«È una data con un duplice significato: la “ritrovata” capitale italiana (può immaginare la Francia senza Parigi? E l’Italia senza Roma?), ma anche la fine del dominio temporale della Chiesa, che ha dato luogo a settanta anni di conflitti (le ricordo che il papa lasciò il Quirinale al re, ma senza suppellettili, vuoto). Sarebbe bene che venisse festeggiato il primo, non il secondo significato».

La festa ignorata/ L’indifferenza per la Capitale che nuoce al Paese


Da sempre la crisi di Roma si riflette in quella italiana. Il XX Settembre può essere una leva per ricostruire un rapporto fra Roma e l’Italia?
«Giusto, ma per farlo Roma deve darsi un ordinamento speciale, una classe dirigente all’altezza di una capitale, una struttura amministrativa non fatiscente, progetti ambiziosi, ma realizzabili. Sono tutte condizioni ora inesistenti».

In altre occasioni lei ha sostenuto che la morte improvvisa di Cavour fu un problema per la costruzione dello Stato unitario con Roma Capitale. Perché?
«Cavour era coetaneo di Bismarck, che gli è sopravvissuto di più decenni e per molti di questi è stato cancelliere. La morte (e quella morte) di Cavour, poco dopo l’unità d’Italia ci ha privati di una guida. La storia dell’Italia unita sarebbe stata diversa se i primi decenni fossero stati guidati da Cavour e se il Piemonte - che ne aveva le possibilità - avesse svolto il ruolo giocato dalla Prussia in Germania».

Sul piano storico una giornata come questa viene vissuta soprattutto per la fine del potere temporale della Chiesa ma non crede che vada vista soprattutto in senso positivo? Roma dopo il 1870 iniziò a diventare una grande città europea. Per molti anni ci fu una notevole vivacità per la costruzione delle città che ebbe riflessi anche sullo sviluppo economico italiano.
«Verissimo. Tanto più che Sella e i primi governi ebbero idee chiare anche sulla costruzione della città amministrativa, che doveva nascere intorno all’asse di via XX Settembre (lì i ministeri di Industria, agricoltura e commercio, della guerra, delle finanze, la Corte dei conti, il Quirinale) perché vicina alla stazione ferroviaria: quindi, la capitale amministrativa alla portata della nazione». 

Cosa ha funzionato meglio nel rapporto fra Roma e lo Stato unitario italiano e cosa non ha funzionato?
«L’idea iniziale di una città amministrativa, tipo il “Federal Triangle” di Washington o il VII Arrondissement di Parigi, fu abbandonata da Giolitti, dopo un quarantennio. Giolitti distribuì i ministeri nella città (pensi all’Istruzione), in funzione degli impiegati. E Mussolini continuò (pensi ai ministeri dell’Eur e alla Farnesina). Una idea opposta a quella di Sella, che voleva concentrazione e vicinanza alla stazione, perché dalle ferrovie venivano gli utenti-nazione. Più vicino a noi c’è stato il tentativo - purtroppo abortito - dello SDO - Sistema Direzionale Orientale».

Le Roma di Crispi e poi di Giolitti e poi ancora di Mussolini  e infine quella demo-comunista del dopoguerra hanno guidato lo sviluppo nazionale, determinato equilibri fecondi per l’economia nazionale come, per molti anni, un positivo rapporto fra Stato e privati, guidato il processo di ingresso nell’euro. Non trova che senza una Capitale-guida l’Italia ora rischia di non avere un orizzonte?
«Pensa davvero che Roma e la dirigenza del Paese facciano tutt’uno? Io penso che tra i due poli vi sia un fossato. Parlamentari e uomini di governo, anche alti funzionari e certamente grandi imprenditori (quei pochi che abbiamo) non si “sentono a casa”, a Roma. C’è - mi pare - una discrasia accentuata. Per molti di loro, come disse una volta un osservatore straniero, “a Roma comincia l’Oriente”. E gli stranieri che oggi vengono a Roma, nonché noi romani, come potremmo smentire questa conclusione?».

Per insistere sui nostri giorni non si può non parlare del rapporto fra amministrazioni centrali e regionali. Il centralismo è sempre un peccato? Quando Roma è stata forte e dinamica anche l’Italia ci ha guadagnato.
«Il centralismo ha due declinazioni. Una è quella tradizionale: il centro decide, la periferia esegue. Un’altra è quella nuova: si decide insieme, centro e periferia, e per farlo, ci si incontra a Roma. Questo secondo centralismo, che si potrebbe chiamare debole, sarebbe iscritto nelle leggi che regolano le varie “conferenze” Stato regioni, autonomie locali. Ma che è successo con la pandemia? Il contrario: un inseguirsi di voci, una in contrasto con l’altra. Da ultimo sull’apertura degli stadi, poi rimediata con la concertazione. Insomma, il centro deve esser capace di governare con, non contro la periferia».

Come fare in modo che la molla di modernizzazione e speranza che diede vita alla breccia di Porta Pia torni a funzionare anche oggi?
«Torniamo al punto di partenza. Ci vorrebbe un politico di prima grandezza, consapevole che fare il sindaco di Roma vuol dire mettere la Capitale al servizio e alla guida del Paese. Ma di politici di prima grandezza ce ne sono pochi, e nessuno pensa di dedicarsi a questa missione». 
 

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