I 150 anni di Porta Pia: è tempo che la Breccia diventi festa nazionale

I 150 anni di Porta Pia: è tempo che la Breccia diventi festa nazionale
di Mario Ajello
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Domenica 20 Settembre 2020, 00:12 - Ultimo aggiornamento: 21 Settembre, 01:57

Festa dimenticata, festa da ripristinare. Quale migliore occasione di questa, con i 150 anni dalla Breccia di porta Pia e in un momento di ricostruzione nazionale dopo l’emergenza Covid, per dire che la giornata del 20 settembre va reintrodotta nelle festività del calendario laico del nostro Paese? Servirebbe un impegno delle forze politiche in maniera bipartisan, anche in vista dei 150 della legge istitutiva di Roma capitale d’Italia (3 febbraio 1871), per ripartire da quanto fece un grande statista, e un valente difensore della laicità dello Stato, Francesco Crispi

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Fu lui, nel 1895, a volere il 20 settembre festa nazionale. Ma con il ‘900, tra convenienze politiche, dimenticanze storiche, ambiguità e appeasement nel rapporto dello Stato con la Chiesa, quella festività che avrebbe ancora oggi o oggi più che mai un’importanza strategica è stata soppressa nel 1930 con i Patti Lateranensi e relegata nell’oblio in tutta l’età repubblicana. Non è stata più ripristinata anche se, negli ultimi anni, sono state presentate diverse proposte di legge per immetterla un’altra volta nel novero delle solennità civili.

Il fatto è che l’Italia, a livello politico e di governo, ma anche a livello culturale e di coscienza pubblica - il che è gravissimo e denota subalternità al potere clericale - non ha mai dato il giusto rilievo a questa giornata. Non l’ha mai celebrata come si deve. Ha visto nel 20 settembre non una pagina fondamentale e un evento fondante della storia nazionale ed europea ma quasi un fatto di cui vergognarsi. Svelando così un rapporto sbagliato, fin dall’inizio, con Roma, giustamente definita - purtroppo! - «capitale malamata». 

Nella sottovalutazione del 20 settembre c’è una sorta di inconfessa subalternità sempre strisciante al clericalismo, manca una rivendicazione piena dell’orgoglio laico, non si trova quell’afflato per l’unica città capace di rappresentare l’Italia (le altre vivono solo di memorie municipalistiche) e tantomeno quel senso di riconoscimento pieno e di identificazione profonda che per esempio ha la Francia nei confronti di Parigi. 

SOPPORTAZIONE
Questa sorta di “sopportazione” di Roma ha tarpato le ali alla forza dello Stato, danneggiando i destini del Paese. Da questa sottovalutazione di Roma cominciata da subito derivano nel corso dei decenni le fortune di tutte le speculazioni politiche di tipo pseudo-federalista, degli spropositi del Nord secessionista, del bossismo e del leghismo, del disegno autonomista - ora si chiama così - a cui ammicca assai anche certa sinistra e che non può che risolversi, se non viene fermato, in un anti-storico Spacca-Italia. Ossia in una resa nella competizione internazionale e in un’abiura rispetto all’idea di sviluppo così sintetizzata da Mazzini nella sua lungimiranza: «L’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà».

Insomma il 20 settembre è una festa mal vissuta. E che risente di ambiguità che vengono da lontano. Non è normale che Vittorio Emanuele II, il re dell’epopea risorgimentale che ebbe nella Breccia il suo acme, a lungo non volle recarsi a Roma dopo averla annessa - il plebiscito del 1871 finì con questo risultato: 40.875 sì all’annessione e 46 no, ovvero lo 0,1 per cento - e il doversi trasferire al Quirinale provocava in lui qualche fastidio. Infatti trovò ogni pretesto per rinviare il suo arrivo in città. 

Come si legge nel libro di Vittorio Vidotto (appena edito da Laterza, il titolo è “20 settembre 1870”), La Marmora in una lettera al capo del governo Lanza del 2 novembre arrivò a suggerire che, almeno fino alla morte di Pio IX, il governo restasse a Firenze. E che Roma venisse considerata capitale soltanto di nome. Unicamente «onoraria», suggerì il senatore lombardo Stefano Jacini. E soltanto il 31 dicembre, 101 giorni dopo la Breccia, il sovrano ruppe gli indugi e si recò nell’Urbe.

L’occasione fu una piena del Tevere che sommerse il centro della città, trasformandolo in un grande lago. Vittorio Emanuele trascorse a Roma poco più di dodici ore per esprimere la propria solidarietà ai cittadini di quella che, di lì a poche settimane, sarebbe stata consacrata Capitale del Regno. Si dovrà poi attendere il 2 luglio del 1871 perché il re si stabilisse definitivamente al Quirinale. Il tutto mentre, da quel giorno fino alla data della sua morte il 2 febbraio 1878, Pio IX – che l’Osservatore Romano definiva l’«augusto prigioniero del Vaticano» - tenne 556 discorsi tutti incentrati su un «processo al Risorgimento». 

IL POST PROBLEMATICO
Già il post Breccia si rivela insomma, fin da subito, problematico per Roma. In ogni caso, il decennale di Porta Pia verrà celebrato nel 1880 con grande enfasi dal capo del governo Benedetto Cairoli, ex garibaldino. Il quarantennale, nel 1910, sarà festeggiato dal celebre sindaco anticlericale Ernesto Nathan in aperta polemica con il nuovo Pontefice Pio X. Poi sia prima che dopo i 140 della Breccia - 20 settembre 2010, in cui, assieme al presidente Napolitano e al sindaco Alemanno alle celebrazioni prenderà parte il cardinal Bertone in rappresentanza di Benedetto XVI - l’anniversario è stato onorato veramente solo da piccole minoranze. I radicali e poco più. I partitoni, quello democristiano e quello comunista e i loro eredi, hanno evitato con colpevole imbarazzo questa festa. Celebrativa di una giornata, così disse Crispi nel 1895, in cui «si abolì l’ultimo avanzo del feudalismo politico e si dette ai popoli intera libertà di coscienza». 

Oggi va ristabilita quella festa per fissare una volta per tutte due punti che dovrebbero essere naturali e che purtroppo non appaiono fino in fondo acquisiti: l’assoluta laicità dello Stato rispetto a qualsiasi ingerenza clericale e il ruolo di Roma Capitale come vero motore della ricostruzione italiana.
 

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