Roma, lascia morire la compagna di polmonite a 40 anni. Lei scriveva in un diario: «Mi umilia, ma lo amo»

In aula la testimonianza della madre della 40enne deceduta. ll compagno Fausto Chiantera è accusato di omicidio

Roma, lascia morire la compagna di polmonite a 40 anni. Lei scriveva in un diario: «Mi umilia, ma lo amo»
di Federica Pozzi
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Mercoledì 5 Luglio 2023, 22:56 - Ultimo aggiornamento: 7 Luglio, 09:54

«Mi ha promesso che non lo farà più», «io lo amo». Si illudeva che il suo compagno sarebbe cambiato e invece - secondo la Procura di Roma - l’ha condotta alla morte. Fausto Chiantera, 43 anni, è imputato davanti alla prima Corte d’assise di Roma per omicidio volontario aggravato, oltre che per cessione di stupefacenti, lesioni e maltrattamenti. Un vortice di violenza in cui lui l’aveva intrappolata e che ha portato al decesso della 40enne, il 18 gennaio del 2022. Ieri, ascoltata come testimone, la madre della vittima ha ripercorso gli innumerevoli ma vani sforzi per cercare di tirare fuori la figlia da quell’amore tossico, che si è rivelato fatale.

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Era presente in aula anche Chiantera; la signora però non ha mai rivolto lo sguardo verso di lui e non l’ha mai chiamato per nome, usando l’appellativo di “imputato”. La relazione inizia a febbraio 2020. «Dopo i primi tre mesi di convivenza - ha raccontato la madre ai giudici - era tornata a casa, tante cose non me le diceva perché voleva proteggerci. Diceva che era lui che l’aveva introdotta all’uso di psicofarmaci. Aveva paura di essere drogata e per questo, quando è tornata per 5 giorni da lui, non ha mai bevuto nulla che le fosse offerto dall’imputato».


IL DIARIO
Ed è proprio in questo periodo che la figlia scrive una sorta di diario - che sarà poi ritrovato dai genitori dopo la sua morte - in cui annotai soprusi subiti. A leggerlo in aula la mamma della vittima: «Percosse, istigazione al suicidio, ricatto, stalking. Ha insinuato più volte che fossi pazza, mi ha umiliato davanti agli altri. Controllo della mia vita: tiene la mia scheda nel suo cellulare. Mi ha spinta con un calcio davanti al figlio». Nonostante ciò, torna a vivere a casa del compagno. «Noi la vedevamo che era sempre rallentata nel parlare, non era lucida, ma ci diceva di andare via». A novembre del 2020 la donna, dopo essere stata portata in ospedale perché si era sentita male in seguito all’assunzione di droghe, va prima a stare dalla sorella e poi torna per due giorni a casa dei genitori: «li aveva passati al letto sempre a dormire senza neanche lavarsi, poi una mattina si è alzata, si è fatta la doccia ed è tornata dall’imputato». Il 10 febbraio 2021 la vittima manda una foto alla madre con il volto tumefatto: «un occhio livido, una ferita alla testa, il viso gonfio». Con il marito va a casa di Chiantera, ma, non ricevendo alcuna risposta, chiamano il 112 e mostrano agli agenti lo scatto inviato poche ore prima dalla figlia. La polizia fa irruzione nell’abitazione e trova la giovane incosciente.

Una volta portata in ospedale, lei rifiuta il ricovero. L’indomani, però, dopo aver parlato con l’ex compagno, decide di denunciare Chiantera. Passano altri due giorni e la madre non molla, si presenta sotto casa sua e chiede alla figlia perché sta ancora lì. «Perché lo amo, mi ha promesso che non lo farà più», è la risposta della vittima. «Lui l’ha manipolata a tal punto da farle ritirare la denuncia», ha sostenuto la madre in aula. L’ultimo incontro a metà dicembre 2021. «Abbiamo pranzato, ci siamo abbracciate e dette ti voglio bene e appena finito di mangiare voleva andare via di corsa perché l’imputato la aspettava». Anche in questa situazione, ha spiegato la madre ai giudici, «era gonfia, occhi cerchiati, capelli non curati. Lei non stava bene, ma io rivedevo mia figlia e questo mi bastava».


«A Capodanno ci ha telefonato dicendo che ci chiamava di nascosto per farci gli auguri perché non voleva far sapere a lui che stava riavendo contatto con noi. In quella occasione ci aveva detto che lui le aveva preso i soldi dal bancomat». Uno spiraglio di luce arriva quando lei dice di volersi trasferire a Tenerife da un’amica per lavoro. L’ultimo contatto risale a qualche giorno prima del decesso, per organizzare i festeggiamenti del compleanno della vittima. Arriva il giorno, ma i genitori non ricevono più risposte neanche ai messaggi di auguri. Il giorno dell’appuntamento provano a chiamare sia lei che l’imputato ma non ricevono risposte. Finché arriva la chiamata che li fa sprofondare nel baratro: la figlia è deceduta. Chiantera aveva organizzato un droga party a casa, per festeggiare il compleanno della compagna, ma lei aveva iniziato a sentirsi male. Nel capo di imputazione si legge che si sarebbe limitato «a buttarla a testa in giù dentro il vano doccia, spogliandola e mettendo in lavatrice i suoi vestiti, facendole poi assumere cocaina e sostanze psicotrope». E ancora: «Lasciandola in uno stato di incoscienza e di agonia per più giorni e fino al decesso, avvenuto per una broncopolmonite massiva bilaterale, che subito segnalata poteva essere trattata con successo». Il 43enne avrebbe chiamato il 118 solo dopo la morte della compagna.

 

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