Rieti, Mattia Santoprete e l'impresa
storica a Udine con la Nsb:
«Che salvezza, ricordi indelebili».
Oggi lavora per Amazon in Piemonte

A sinistra Santoprete al PalaSojourner accanto a Stonerook, a destra una foto di questi mesi
di Emanuele Laurenzi
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Giovedì 14 Maggio 2020, 12:40 - Ultimo aggiornamento: 12:41

RIETI - «Mi chiamò un dirigente e mi chiese se avevo da fare per il weekend. Dissi che dovevo “solo” andare a scuola e lui mi rispose che mi volevano per la trasferta di Udine. Attaccai il telefono e dissi a mio padre che quel sabato e il lunedì successivo non sarei andato a scuola».

La trasferta in questione è quella della Nuova Sebastiani ad Udine del 10 maggio 2009. L’ultima trasferta, quella più importante. Quella che valse un’impresa forse inutile per come finì poi, ma unica nel suo genere: la salvezza sul campo per la squadra di Lino Lardo. «Un’emozione unica, incancellabile anche dopo più di 10 anni»: a ripensarci e a raccontarla così è Mattia Santoprete, ex cestista di Rieti all’epoca appena 17enne e in forza alle giovanili del gruppo amarantoceleste in quelle stagioni d’oro.

Oggi ha abbandonato il basket agonistico («ma quando posso gioco» confessa) e ed entrato a far parte del colosso Amazon lavorando nel sito di Torrazza Piemonte, vicino Torino, dove è rimasto in questi mesi di lockdown.  

Qual è il ricordo di quella stagione alla Nuova Sebastiani?
«Eravamo una squadra molto forte tanto che sfiorammo le final eight nazionali. Molti di noi vennero convocati in prima squadra andando in panchina».

Quella di Udine non fu la tua prima panchina. C’era stato già l’esordio in casa contro il tuo “gemello di capelli” Shaun Stonerook, giusto?
«Si, la prima volta in assoluto in prima squadra c’era stata poco più di un mese prima, quando era stato convocato per la gara interna con Siena. Una grandissima emozione scendere in campo al PalaSojourner davanti ai nostri tifosi».  

Poi la chiamata per la partita della storia.
«Ricordo ogni momento di quel fine settimana a cominciare da quando partimmo da Rieti. Il viaggio in pullman verso Roma, poi l’aereo che ci portò ad Udine. Il trasferimento in hotel dove condivisi la stanza con Jerry Green. Vivemmo quelle ore come un vero e proprio gruppo, sempre tutti insieme. Andammo agli allenamenti al palazzo prima della partita, ricordo la tensione che aveva ogni giocatore e coach Lino Lardo: lui è un grande ed è stato un grande. Era teso, com’era ovvio, ma seppe caricare la squadra e tutti erano convinti di potercela fare».

Poi finalmente la partita. Cosa ricordi di quei 40 minuti vissuti in prima linea?
«Entrammo in campo e tutti ci meravigliammo perché c’era tantissima gente di Rieti arrivata fino ad Udine. Fu bellissimo vincere in quella cornice. La vittoria e la contemporanea sconfitta della Fortitudo Bologna a Teramo (con tanto di finale thrilling e contestazione dei bolognesi che volevano l’ultimo tiro valido tanto da arrivare ad un ricorso federale poi perso, ndr) tennero Rieti ufficialmente in serie A dando via ad una festa pazzesca. Furono ore di gioia festeggiammo lì sul campo ad Udine e poi al ritorno a Rieti fu bellissimo».

Qual è la prima immagine dell’arrivo in città e cosa successe dopo?
«Ricordo ancora l’arrivo del bus al PalaSojourner e il parcheggio strapieno di gente. In quel momento pensai che, in altri tempi, sarei stato in mezzo a quella gente e stavolta, invece, ero sul pullman. Continuammo a festeggiare anche la sera, con una grigliata di carne argentina a casa di Miluzzi dove ai fornelli spopolarono Gigena e Ingles».

Un sogno che, purtroppo, finì lì perché seguirono i fatti di Napoli. Ma tu avevi già preso una direzione diversa…
«Sarebbe stato bello vivere ancora la serie A, ma quello che successe fu un colpo per tutti. Io l’ho vissuto da molto lontano, perché avevo fatto domanda per una borsa del progetto Intercultura e andai un anno negli Stati Uniti, a Monterey in California e, nella high school che frequentai, continuai anche a giocare a basket mettendo in pratica gli insegnamenti difensivi della scuola italiana. Quando sono tornato ho continuato a giocare, fino allo scorso anno ero con Contigliano».

Quell’esperienza americana fu raccontata in esclusiva proprio dal Messaggero. Ora come è cambiata la tua vita?
«A luglio scorso sono entrato ad Amazon dopo un periodo nello stabilimento sabino, ho avuto una proposta per entrare a tempo indeterminato come Learning and developement trainer, occupandomi della formazione degli addetti al magazzino a livello di processi complessivi. Un’occasione ottima ma che mi ha portato ad abbandonare Rieti. Mi sono trasferito a Chivasso, un paese in provincia di Torino vicino allo stabilimento Amazon di Torrazza Piemonte, struttura gemella a quella sabina».

Sei andato a rinforzare la truppa dei reatini che vivono e lavorano lontano dalla città. Da quando non torni a casa?
«Ero tornato nell’ultimo fine settimana di febbraio, ma fu solo un caso. Avevo prenotato i biglietti da tempo. Poi sono rimasto bloccato qui anche se, in un certo senso, sono stato contento delle restrizioni: non ho avuto la tentazione di scendere evitando il rischio di contagio per i miei familiari. Ovviamente ci sentiamo spesso con tutti, anche con mio fratello Luca che vive e lavora a Reggio Emilia».

Lontano da casa e solo in un periodo non certo facile: com’è stata la vita in questi due mesi?
«Da un punto di vista lavorativo io ho alternato smartworking e lavoro in presenza.

Almeno 3 giorni su 5 ero in sede e l’azienda ha attivato tutti i protocolli necessari per garantire la massima sicurezza di tutti. Noi abbiamo lavorato tantissimo, per certi versi la nostra attività è esplosa e abbiamo fatto formazione alle persone pre assunzione. Avevamo gruppi da 30 lavoratori che formavamo su sessioni di 8 ore: con tutto quello che accadeva e con le novità è stata una bellissima sfida professionale da affrontare. Certo non tutto è stato come prima a partire dai rapporti con colleghi ed amici. Qui siamo abituati a vederci prima o dopo il lavoro, magari ad uscire per una birra. In queste settimane solo lavoro e casa. Vivo in centro a Chivasso, vicino a me c’è un collega e ci siamo fatti compagnia in questi giorni. Appena possibile torneremo a fare vita comune e, per quel che mi riguarda, tornerò anche a giocare: non ho squadra, ma ho imparato a conoscere queste zone, ci sono campetti che mi aspettano perché il basket non si dimentica».

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