Scuola bocciata in internazionalizzazione: i docenti italiani le affibbiano un insufficiente 5,1 in pagella. Sospesa tra tradizione e innovazione, italianità e globalizzazione, pur consapevole dell'importanza dell'apertura oltre confine, quella italiana è una scuola generalmente restia al cambiamento, così come lo è la maggior parte del suo corpo docente. È quanto emerge dalla ricerca 2015 dell'Osservatorio nazionale sull'internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca promosso dalla Fondazione Intercultura presentata oggi al Ministero dell'Istruzione.
La ricerca, attraverso i dati elaborati da Ipsos , illustra anche il punto di vista dei Presidi che si sentono più fiduciosi degli insegnanti: il 65% dà un voto tra 7 e 10. Forse, la spiegazione è da ricercare nel dibattito più che mai attuale della riforma della «Buona Scuola», che vede i docenti assumere posizioni più critiche e i Presidi, a cui è stata riconosciuta maggiore libertà di azione per poter attuare cambiamenti, più ottimisti. In un sistema scolastico dove il programma è il cardine per valutazioni e attività, l'unico voto positivo attribuito dagli insegnanti alla scuola secondaria in Italia è quella relativo alla qualità dell'insegnamento (6,2); vengono invece bocciate la capacità di accoglienza e valorizzazione degli studenti stranieri (5,8), il grado di insegnamento delle lingue straniere (5,4), la capacità di formare cittadini europei (5,3), l'apertura a collaborazioni con scuole estere (5,1), la predisposizione al cambiamento (5,0), il sostegno ai programmi di mobilità individuale degli studenti (5,0), il grado di partecipazione ai programmi internazionali (4,9). La bocciatura più sonora riguarda però la conoscenza delle lingue straniere da parte dei prof non di lingua con un voto pari a 4,2, con più della metà dei professori, il 57%, che valuta la propria conoscenza dell'inglese bassa o medio/bassa.
Ma come aiutare il sistema scolastico a intraprendere la strada del cambiamento? Secondo i docenti la scuola ideale dovrebbe offrire loro le condizioni e le risorse per lavorare al meglio: 2 su 3 (il 61%) chiedono autonomia e flessibilità (32%) mentre, per un docente su quattro (24%) la necessità primaria è l'aggiornamento perché la scuola sia al passo con la società; un altro 10% preferirebbe avere maggiori riconoscimenti, dal proprio ruolo a quello economico.
In medias res, esiste un altro 22% di insegnanti che ha un «potenziale di internazionalità», avendo partecipato a corsi di lingua o avendo coinvolto i propri studenti in progetti all'estero come gli scambi di classe, i gemellaggi etc. Dall'altra parte della barricata, invece, ci sono gli studenti che, con la complicità dei genitori, sempre di più vogliono correre, per arricchire il proprio curriculum scolastico e umano con un periodo di studio all'estero (la crescita di chi ha aderito a questi programmi è stata pari a un +109% tra il 2009 al 2014, anno in cui sono partiti 7.300 adolescenti per un periodo compreso tra i tre mesi e l'intero anno scolastico. Fonte: Osservatorio 2014).
Se si va a scavare nella loro anagrafica, si scopre che non vi è una grossa differenza di età, genere, provenienza geografica tra i docenti «internazionali» e quelli definiti dalla ricerca come «local». I primi hanno in media 47 anni (quindi non sono necessariamente i più giovani), i secondi 50 anni, sono equamente distribuiti in tutta Italia con punte, per quanto riguarda il primo profilo, in Lombardia e Puglia, per due terzi sono donne, così come lo è l'intero corpo docente. Certo, gli internazionali sono soprattutto i docenti di lingue, anche se il dato più eclatante, è che più della metà di questi non ha effettuato esperienze all'estero di lungo periodo. I prof internazionali hanno iniziato fin da giovani a lavorare alla loro formazione internazionale: il 49% ha frequentato brevi corsi all'estero da studente(12% i «local»), ben il 36% ha partecipato alla mobilità studentesca di lungo periodo, ad esempio Erasmus o l'anno all'estero durante le superiori (solo l'8% i local), il 27% ha lavorato all'estero prima dell'insegnamento (un piccolo 4% tra i local).
Ma che effetti ha nelle scuole la presenza dei Prof internazionali? Diversamente dai docenti local, gli «internazionali» si percepiscono più aggiornati (36% vs 23%) e innovativi (26% vs. 13%), maggiormente inclini a sperimentare metodi di insegnamento alternativi. Gli insegnanti «local», invece, pur descrivendosi come docenti propositivi (28%), sono meno innovativi (13%). Se nella vita extra-scolastica sono persone aperte alle diversità ma che si sentono più a loro agio nel proprio contesto culturale, a scuola rispecchiano appieno l'immagine classica del docente: una figura stimolante (29%) ed esigente (31%), ma che fa fatica ad avere uno sguardo 'globalè e a riconoscere l'importanza di una formazione internazionale (solo l'1% si sente «internazionale»). Va comunque sottolineato che, nel complesso, la scuola italiana e il suo corpo docenti continuano a presentarsi con un'immagine piuttosto tradizionale sia in termini di metodo d'insegnamento: la lezione frontale è la norma e, dati anche i tanti vincoli (programma, risorse a disposizione) a cui sono sottoposti tutti i professori, la sperimentazione ricopre comunque un ruolo marginale all'interno dell'attività didattica; sia in termini di valutazione degli studenti: senza particolari distinzioni tra internazionali e local, gli insegnanti sono concordi nel ritenere che la valutazione si debba basare principalmente sulla preparazione raggiunta, senza necessariamente tenere in considerazione le competenze trasversali sviluppate.
«La sfida che si pone di fronte a noi è quella di innescare un processo virtuoso per sostenere i docenti nella loro formazione internazionale - spiega il Segretario Generale della Fondazione Intercultura Roberto Ruffino - Può farlo la singola scuola, può farlo il privato, possono farlo le istituzioni. Sarà un processo a tre velocità: alcuni docenti andranno valorizzati nel loro già essere internazionali, altri - quelli »aperti« - dovranno essere meglio formati, altri ancora, la fetta più grande, dovranno essere sostenuti, con tempi più lenti e più lunghi. I Presidi, grazie anche alla maggiore autonomia di cui godranno, avranno un ruolo fondamentale per questa evoluzione. Saranno loro a dover cogliere gli spunti provenienti dagli insegnanti più attivi e far sì che questi non si limitino a generare iniziative estemporanee, ma possano essere capitalizzati in buone pratiche ripetibili e condivisibili».