Italia e sicurezza/ Guardia alta ma evitiamo allarmi ingiustificati

di Paolo Graldi
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Martedì 13 Gennaio 2015, 00:48 - Ultimo aggiornamento: 00:52
Volteggianti nei cieli di casa nostra come fastidiosi droni di bassa quota si rincorrono le “notizie” (virgolette obbligatorie) sull’imminente attacco dell’Isis all’Italia, a Roma, al Vaticano, al Papa, ai fedeli in piazza San Pietro: quasi un gioco ad alzare il livello della psicosi da paura, suggellato da tv estere, americane e israeliane, al solito ben informate e dunque credibili per definizione.



Tutto ciò crea un allarmismo di maniera, un’attesa quasi rassegnata al peggio, un senso diffuso di impotenza. Male. Perché se è vero che il pericolo potenziale esiste e di quello esistono molte prove, è altrettanto vero che i sensori della nostra intelligence si affannano, anzi si ostinano a negare che, allo stato, vi siano pericoli “concreti” di attacchi terroristici imminenti. E allora la domanda è: ci sono davvero questi pericoli che s’aggirano come nuvoloni neri pronti a sganciare il loro carico di morte o siamo noi che non li vediamo, magari confidando nella buona sorte? Il giudizio unanime finora espresso da chi può guardare dall’interno il lavoro dei nostri Servizi di sicurezza deve rassicurare.



Si compie un distinguo molto netto: da una parte le minacce. I filmati accuratamente sonorizzati, il rullare di tamburi di guerra, l’addestramento dei militanti con le armi e i coltelli in pugno, le bandiere nere del Califfato issate sulla cupola di Michelangelo per fissare in una terribile icona la conquista del Vaticano.



E poi le carrellate dall’alto sulla Roma monumentale, riconoscibili in ogni angolo del pianeta, e i proclami di scannamenti di massa. Insomma tutta la propaganda che si è andata affinando e condensando sull’Europa e gli Usa; dall’altra parte il lavoro silenzioso, sperabilmente operoso e indefesso delle Agenzie e delle forze dell’ordine: indagini, intercettazioni, controlli, scambio di informazioni sensibili, dati confrontati e valutati. Da questa seconda tranche di realtà non arrivano segnali raggelanti, è in atto, dopo i funesti giorni parigini, un livello di allarme palpabile anche per le strade ma non arrivano segni di cellule che si muovono con l’accensione di piani d’attacco.



Il quadro è complesso e cangiante e tuttavia, a proposito di certe sparate televisive, si può azzardare l’ipotesi, maliziosa solo a metà, che dagli Usa e da Israele partano messaggi destinati a spingere l’opinione pubblica a una fortissima ed eccezionale richiesta di sicurezza. Se si produce paura, la paura produce la domanda di protezione e questa deve essere visibile, toccabile con mano. Una dose di calcolata esagerazione per tenere la pentola dell’allerta sempre in bollore. Può rivelarsi una tecnica non priva di efficacia nel breve periodo ma può anche prestare il fianco, a cadute d’attenzione nel lungo periodo dove un cordone sanitario troppo stretto e troppo esteso non può reggere, fatalmente cedendo alla stanchezza.



Chi sta nascosto, in sonno, pronto all’agguato ha il vantaggio, se non disvelato prima di agire, di scegliere modi e tempi dell’azione. E dunque sarà la capacità di misurare con intelligenti dosaggi le risorse dell’allerta che saprà fornire, alla lunga, i maggiori vantaggi. Sempre che non sia perduto un solo secondo nei laboratori di analisi, sempre che i mezzi siano adeguati alla sfida in atto, sempre che l’osservazione faccia rapido uso della esperienza sapendo tradurla in modalità nuove e più penetranti.



La situazione è seria, nulla va sottovalutato, lasciato al caso. Ma anche visioni di collaborazioni non ideali di per sé e tuttavia utili nella contingenza andrebbero considerate. Perfino il contributo degli iraniani e manco a dirlo dei servizi algerini e tunisini, per spingersi fino al russo Kgb possono imbastire sinergie con chi ne sa più di noi perché magari dispone di modalità operative più dirette e pregnanti.



L’idea di una centrale europea, ancora tutta da mettere a fuoco, si scontra contro malcelate diffidenze di parte italiana: si sa che i francesi, amici per la vita e per la pelle, sono da sempre curiosi dei nostri tesoretti anche in fatto di brevetti industriali ed anche altri servizi sono poco disposti a mettere tutto il loro sapere su un unico tavolo, al quale tutti possono servirsi come in un buffet.



Certo, i nuovi livelli di integrazione dopo i fatti di Parigi, imporranno decisioni taglienti e ciascuno, per il bene comune, dovrà cedere qualcosa del proprio “arsenale”, parecchio di più di quanto si sia visto fin qui. Comunque, siamo pronti, ad ogni evenienza? Sta in questa domanda l’essenza della sfida in atto. La polemica deflagrata sul destino di Schengen, per un forte rafforzamento dei controlli, trova la Francia risoluta per evidenti ragioni, noi contrari e gli spagnoli dapprima con Parigi e ora meno disponibili a cedere sul fronte della libera circolazione delle persone. I nostri ministri Alfano e Gentiloni sono determinati a puntare i piedi, considerando che non sia una stretta nei filtri verso tutto e tutti la strada per scovare il flusso di clandestini che tornano dagli scenari di guerra in Medio Oriente, indottrinati e pronti all’azione nelle nostre città. Preoccupa il fenomeno dei “foreign fighters”, ancorché valutati in un numero esiguo rispetto alla realtà francese e inglese dove sono calcolati a migliaia.



Ma là c’è il retaggio coloniale a complicare le cose e gli uomini di seconda generazione si sono mostrati, statistiche alla mano, i più accesi. Sono andati in Siria, nello Yemen, in Iraq ad addestrarsi, a combattere, a votarsi al “martirio” e possono tornare con la missione di uccidere, vomitare l’odio di cui li hanno nutriti. Sono soggetti pericolosi anche perché dispongono di straordinarie capacità mimetizzanti, parlano la nostra lingua, conoscono i luoghi, hanno estese relazioni e forse anche complicità attive.



Vanno scovati, resi inoffensivi. Si parla poco di loro colleghi forse anche più pericolosi: sono algerini, tunisini, egiziani, siriani che provengono dai campi di battaglia, affiliati saldamente alle organizzazioni combattenti, ma “rifugiati” nel nostro territorio perché impossibilitati, per evidenti ragioni, a ritornare a casa, da dove sono partiti. Qui i numeri salgono di molto. E ancora una volta si tratta di soggetti che definiremmo “irriducibili”, impiegati anche come reclutatori, comunque benissimo addestrati. Di questi soggetti si sa poco, se non che sono diverse centinaia, sparsi un po’ ovunque. Proprio per questo la raccomandazione delle forze dell’ordine alla massima vigilanza va tradotta con un invito a farsi elementi attivi in caso di situazioni anomale. Non è pensabile bruciare il pagliaio per scoprire dove si cela l’ago: è possibile usare tante calamite per tirarlo fuori dalla pagliuzza che lo nasconde.