Un anno difficile con le premesse del cambiamento

di Giuliano da Empoli
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Martedì 31 Dicembre 2013, 12:58 - Ultimo aggiornamento: 12:59
In un magnifico editoriale di fine anno, l’Economist ha paragonato il 2013 al 1913. Sarebbero numerosi, secondo i redattori del settimanale inglese, i paralleli tra l’anno che ha preceduto la prima guerra mondiale e la situazione attuale. Da una parte, un impero che non riesce più a garantire l’ordine globale (all’epoca la Gran Bretagna, oggi gli Stati Uniti). Dall’altra una potenza rivale, autoritaria e in ascesa (ieri la Germania, oggi la Cina). Nel mezzo, un’Europa debole e frammentata, che s’illude che la densità degli scambi commerciali abbia reso impossibile una volta per tutte ogni forma di conflitto militare.



Scorrendo l'articolo, molti lettori sono stati percorsi da un brivido. Salvo poi rassicurarsi: è di sicuro un paragone eccessivo, volutamente provocatorio, che gli stessi redattori si augurano possa rivelarsi infondato. Nel caso dell’Italia, però, il parallelo regge. Non certo perché si stia preparando l’entrata in guerra. Ma perché il 2013 ha davvero gettato le basi di una conflagrazione politica di portata epocale. Erano vent’anni che il nostro sistema politico non subiva uno shock così violento. Prima le elezioni, con il trionfo di Grillo e il definitivo tracollo della malinconica macchina da guerra post-occhettiana. Poi la condanna che ha portato alla decadenza di Berlusconi e al big bang del centrodestra; la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale con la quale sono stati eletti gli ultimi tre Parlamenti e, dulcis in fundo, lo tsunami delle primarie del Pd che ha travolto gli ultimi residui del mondo di ieri.



In pratica nel 2013, sullo sfondo di una crisi economica senza precedenti, la Seconda Repubblica ha compiuto il suo harakiri. E con lei, i tre principali protagonisti di questo infelice ventennio: Berlusconi, i suoi avversari e i "tecnici". Il primo non è certo scomparso dalla scena, ma tutto lascia pensare che sia destinato d’ora in poi a giocare un ruolo assai meno centrale di quello che ha interpretato nel corso degli ultimi vent’anni. I suoi avversari, da Bersani a Di Pietro a Fini, sono stati sbaragliati dalle elezioni di febbraio: difficile immaginare che possano ritrovare una qualsiasi funzione in un sistema politico non più strutturato intorno al Cavaliere. Infine i "tecnici" (e para-tecnici), che in questi anni hanno approfittato a più riprese della paralisi politica per issarsi ai vertici delle istituzioni, sono usciti con le ossa rotte dalla débâcle di Monti e del suo movimento.



Ciò che segna il 2013 come l’anno di una transizione decisiva, però, non sono le convulsioni di un sistema ridotto allo stadio terminale. In fondo la Seconda Repubblica si trascina da sempre di crisi in crisi, come un vecchio cantante d’opera che nessuno ha il coraggio di mandare in pensione. Il punto decisivo è che oggi, per la prima volta, sono saliti alla ribalta i protagonisti di una nuova stagione possibile. Il presidente del Consiglio ha parlato qualche giorno fa di una «svolta generazionale» e, in effetti, i dati sono eloquenti: il Parlamento più giovane della storia repubblicana (anche in virtù dell’apporto decisivo dei grillini); un governo di splendidi quarantenni; ora anche un Pd radicalmente ringiovanito nella leadership. Curiosamente, sembra che uno dei Paesi più vecchi del mondo, in termini anagrafici, abbia finito con l’affidare le sue ultime speranze di rilancio alle nuove generazioni. Di per sé, però, il ricambio generazionale non vuol dire molto. In Corea del Nord, il ventottenne Kim Yong-Un ha preso il posto del padre. Eppure non risulta che la popolazione ne abbia ricavato alcun particolare beneficio. Il malgoverno che ha contraddistinto la Seconda Repubblica non ha mai toccato le vette nordcoreane, ma ha comunque precipitato il Paese in una crisi infinita, rispetto alla quale né il Parlamento dei giovani, né il governo dei quarantenni hanno fatto registrare in questi mesi un significativo cambio di passo. Per questo il 2013 è stato tutt’al più un anno preparatorio, come il 1913, anziché l'anno di una svolta vera e propria.



Ora, abbattuto l'ancien régime dei notabili della seconda repubblica, lo scontro si è spostato all’interno della nuova generazione, tra i girondini e i montagnardi. I primi tendono a vivere l'approdo al potere come un punto d'arrivo, i secondi come l'avvio di una rivoluzione permanente. I primi considerano l'Italia una paziente fragile, bisognosa soprattutto di delicatezza e di qualche momento di riposo in più, mentre i secondi hanno in testa una terapia d'urto. I girondini metterebbero d'accordo anche due sedie vuote, mentre i montagnardi sono abituati a non fare prigionieri. In pratica si tratta di due filosofie molto diverse, che possono anche convivere per una fase, ma solo al costo d'inevitabili scintille.



Le previsioni, come diceva Niels Bohr, sono sempre difficili: in particolare quando riguardano il futuro. Ad oggi, i tempi e gli esiti della dialettica tra i girondini e i montagnardi della rivoluzione generazionale rimangono imprevedibili. Quel che è certo, però, è che d'ora in poi la battaglia si svolgerà sul loro terreno, anziché nella palude dei notabili che hanno accompagnato vent'anni di declino e di squallore. E questo, se non altro, è un lascito essenziale del confuso anno che sta per concludersi.