Il perché del voto/ Le incertezze degli inglesi sono appese all’economia

di Stefano Cappellini
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Venerdì 8 Maggio 2015, 00:22 - Ultimo aggiornamento: 00:23
Nessun pareggio, niente Hung Parliament, il Parlamento impiccato alla mancanza di una maggioranza autosufficiente. Almeno secondo i primi exit poll, David Cameron può sperare in un nuovo mandato. I conservatori non hanno la la maggioranza assoluta, ma i seggi mancanti per garantire la nascita del nuovo governo potrebbero arrivare, come già nella legislatura uscente, dai Liberali. Anche gli exit poll più sfavorevoli assegnano comunque ai tories una primazia che nessun sondaggio aveva previsto in questi termini.

Se i numeri saranno confermati dallo spoglio, a Cameron andrà riconosciuto di essere riuscito a cavalcare il ritorno del segno positivo davanti ai principali indici macro-economici del Paese (Pil al 2,8% nel 2014, disoccupazione sotto il 6%). Se questo sarà sufficiente per aprire un ciclo stabile di governo, come nella stagione della Thatcher prima e di quella di Blair poi, ora è però presto per dirlo.



Non basterebbe infatti a Cameron aver aggirato i sondaggi per trasformare una vittoria elettorale in un successo politico. I seggi conquistati dai conservatori potrebbero essere alla fine più o meno gli stessi di cinque anni fa, mentre i liberali rischiano di perderne la metà. Non proprio una acclamazione per la coalizione che ha governato fin qui. In modo ben diverso furono premiati altri governi uscenti in stagioni recenti.



Sia Margaret Thatcher che Tony Blair vinsero a mani basse il loro secondo mandato, grazie anche alla forza di un pensiero capace di rifondare profondamente i rispettivi campi politici.



Cameron si è invece tenuto su una linea più debole e indefinita. In economia, ha alternato revanscismi da conservatore vecchio stile a seduzioni blairiane, senza però riuscire nell’obiettivo di lasciare la sua impronta su una seria riforma strutturale. Ha alzato la voce sull'Europa più dei precedenti inquilini di Downing street, fino a prefigurare scenari di smarcamento dall’Unione (c’è in ballo l'ipotesi di un referendum sull’uscita da Bruxelles da tenere nel 2017), ma finora non ne ha guadagnato né in centralità né in credibilità internazionale. Si è lasciato strattonare e influenzare dai rigurgiti demagogici della destra anti-Ue – l'immigrazione è stata un tema chiave della campagna elettorale - salvo scoprire poi che la minaccia elettorale dell’Ukip di Nigel Farage era molto meno pressante di quanto previsto dopo le europee dello scorso anno. Servirà un altro passo, al leader dei tories, se vorrà trasformare la conferma ottenuta in un vero rilancio.



Disastro vero per il Labour. Il sogno di tornare primo partito si è infranto a urne appena chiuse. Dopo aver conquistato il partito su una piattaforma di svolta a sinistra, Ed il Rosso ha insistito molto in campagna elettorale sul tema del rilancio della mano pubblica in economia e sulla necessità di una redistribuzione dei frutti della ripresa. Il Labour attuale continua a basculare tra il rilancio di un profilo socialdemocratico vintage e la nostalgia per l'epoca vincente del blairismo, che di quelle ricette aveva fatto strame.

L'impresa di conciliare una credibile proposta di cambiamento con il rilancio di un profilo identitario è rimasta a mezz'aria. «La sinistra è ancora viva in Gran Bretagna?», si chiedeva il Guardian, quotidiano non certo ostile, in una lunga e documentata inchiesta pre-elettorale sullo sfaldamento delle storiche casematte laburiste e dalle urne non è certo uscita una risposta rassicurante.



Resta ora il passaggio per trovare uno sbocco politico a un voto che comunque certifica ufficialmente il tramonto di quel bipartitismo quasi perfetto che per decenni ha avuto a Londra la sua culla europea. Ma la democrazia britannica è tra le poche che ha nel suo genotipo le qualità per sopravvivere anche a questa fase. La salute di un sistema – come ben sa anche chi, come Angela Merkel, le elezioni le ha vinto di netto eppure non governa da sola – si misura soprattutto sulla capacità dei soggetti politici di rispondere in modo responsabile alle fasi di emergenza, anche senza il ricorso a un miracoloso premio di maggioranza.