Il caso Rajoy/ Dal governo al catasto una lezione spagnola

di Alessandro Campi
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Venerdì 6 Luglio 2018, 01:00
Quanto può essere carismatico un impiegato del catasto? E infatti Mariano Rajoy – l’ex primo ministro spagnolo – tutto è stato meno che un trascinatore di folle, un demagogo o un grande intrattenitore. Quando teneva un discorso o faceva una dichiarazione, come capo di partito o di governo, nessun elettore spagnolo pendeva dalle sue labbra, anche se lo si ascoltava con rispetto.
È stato semmai un travet della politica: metodico, puntiglioso, grigio ed austero finanche nell’aspetto, con qualche innocente manìa (ad esempio il fumo dei sigari) ma senza alcun vizio manifesto. Che è quel che ci si aspetta sul piano dei comportamenti, privati e pubblici, da uno che prima di entrare in politica di mestiere faceva il “conservatore dei registri immobiliari” (gli spagnoli dicono “registrador de la propiedad”). 
Esattamente la mansione impiegatizia alla quale è volontariamente tornato a 63 anni dopo un trentennio circa di carriera, a tratti anche gloriosa, in parlamento e nelle istituzioni. Lasciato (traumaticamente) il governo, abbandonata la guida del Partito popolare, avendo anche rinunciato allo scranno di deputato al Congresso, indossati dunque i panni d’un cittadino qualunque, oggi Rajoy lavora in un ufficio periferico del catasto spagnolo, nella cittadina di Santo Pola, dalle parti di Alicante.
Forse ha creato qualche problema d’ordine pubblico, essendo per i ruoli ricoperti in passato un appetitoso bersaglio per terroristi e matti d’ogni colore, ma resta il fatto che tutte le mattine timbra tranquillamente il cartellino insieme agli altri colleghi che un tempo magari lo hanno votato come loro leader o lo hanno avversato per le sue scelte di governo.
Vista dall’Italia sembra una fine ingloriosa e miseranda, di quelle che suscitano compatimento e anche (diciamolo) un tantino di godimento: vedere un potente, e Rajoy lo è stato, tornare tra i mortali a fare un mestiere per nulla esaltante (figuriamoci, uno che passa le giornate a inventariare i beni immobili!) sembra un meritato contrappasso. Ma è appunto la lettura grossolana che di questa biografia politica, a suo modo invece esemplare, si può dare solo in un Paese come il nostro, dove il rapporto dei politici con la politica, come anche quello dei cittadini con quest’ultima, è evidentemente malato e insano per ragioni culturali e storiche che sarebbe interessante indagare a fondo.
Il catasto, in un’Italia che non ha mai introiettato un forte senso dello Stato e del servizio pubblico, evoca subito l’immagine di una scrivania polverosa, di fogli in disordine e di un impiegato attempato che si gratta la pancia. Insomma, ci viene subito da ridere e da darci di gomito all’idea che qualcuno possa dignitosamente lavorarvi. E se un simile impiego, in tempi di grave crisi occupazionale come quelli odierni, chiunque oggi l’accetterebbe volentieri è perché si immagina che sia una pacchia di lavoro: poca fatica, soldo sicuro.
In una nazione d’antica tradizione monarchico-burocratica, con un’amministrazione statale forgiatasi sotto l’influenza asburgica, le cose stanno evidentemente in modo diverso. La politica, si dice, è servizio ai cittadini (anche se molti lo dicono senza crederci). Ma è servizio pubblico, altamente onorevole per chi lo pratica e forse persino più importante per il benessere della comunità e dei singoli, anche quello che si rende lavorando in un ufficio di provincia: piccolo ingranaggio di una grande macchina che per funzionare – anche oggi che ci sono i computer e tutte le altre diavolerie elettroniche – ha bisogno soprattutto di uomini forgiati dal senso del dovere. Il registro e la certificazione delle proprietà individuali non è forse, in qualunque società minimamente organizzata, uno dei fondamenti della libertà politica? Se non si è statalisti, basta essere liberali per apprezzare una scelta così poco scenografica, solo all’apparenza eccentrica, come quella fatta dall’ex leader dei popolari spagnoli. A meno di non pensare che sarebbe stato per lui più dignitoso e serio, oltre che economicamente assai più remunerativo, mettersi a libro paga di qualche multinazionale energetica o trasformarsi in opinionista televisivo nei talk show di lingua spagnola. Che sono appunto le cose che ci aspettiamo faccia un politico nostrano quando, per una qualunque ragione, è costretto a mollare la presa.
In Italia, infatti, non solo nessuno esce mai di scena volontariamente (nemmeno dinnanzi a sconfitte politiche manifeste o perché la natura e il buon senso lo consiglierebbero). Chi lascia un incarico o esce dalla politica attiva cerca di restare abbarbicato professionalmente nei suoi paraggi. Una poltrona in una società a partecipazione pubblica. Una consulenza ministeriale. Un qualunque incarico in un qualunque ente periferico. Un ruolo da mediatore in affari giusto per sfruttare le conoscenze acquisiste negli anni trascorsi nei palazzi del potere. Una nuova vita da scrittore o giornalista di cose ovviamente politiche. Di tutto pur di non tornare alla professione antica e originaria (ammesso se ne abbia una) o nei panni, evidentemente ritenuti socialmente punitivi e poco gratificanti, del normale cittadino che fa anonimamente il proprio dovere.
E non si creda, come dice certa facile propaganda, che quest’ultima sia stata una malattia tipica della Prima Repubblica, che ha contagiato anche la Seconda, ma della quale nella fantomatica Terza non si avrà più traccia. Se c’è ahimè una continuità della storia italiana, dalla nascita della Repubblica ad oggi, è invece proprio questa, come già certi episodi di cronaca, al centro come alla periferia della politica, tendono a mostrarci: si fa politica perché non si fare altro, si fa politica perché non si vuole fare altro, si entra in politica con la speranza di non uscirne più. 
Dire che la vicenda di Rajoy dovrebbe servici collettivamente da lezione forse è troppo. Ma questa sua scelta appunto semplice e normale pone qualche interrogativo e lascia qualche insegnamento. Ci fa chiedere, ad esempio, se il senso della politica democratica, che è virtuosa quando crea movimento e dinamismo, non consista appunto nella circolarità virtuosa tra società civile e sfera politica, non nella loro opposizione o, peggio, nella loro sovrapposizione. Si lascia la propria professione, si entra nelle istituzioni, si torna al proprio mestiere: normalmente, senza traumi o trucchi. Ma ci fa anche capire come il tempo dell’impegno politico se non può essere eterno non può nemmeno essere contingentato e deciso a tavolino (le due legislature e stop che vorrebbero i grillini). Deve durare quanto è giusto che duri: sino a che dunque si hanno consensi, energie e idee. Poi si può anche fare un passo di lato o all’indietro, o magari in avanti: si lascia la scena pubblica, ma la vita continua lo stesso, anche senza più avere i riflettori puntati addosso. E non si smette per questo di essere operosi per sé e utili per gli altri.

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