La guerra in casa, la trincea che è dentro di noi

di Giuliano da Empoli
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Giovedì 19 Marzo 2015, 23:40 - Ultimo aggiornamento: 20 Marzo, 00:18
I coniugi Di Porto, 71 anni lui e 68 lei, erano in crociera nel Mediterraneo per festeggiare il compleanno della signora. Mercoledì sono scampati per miracolo alla strage di Tunisi, rifugiandosi sul balcone del museo del Bardo. «Ci siamo nascosti come gli ostaggi del negozio ebraico di Parigi», hanno raccontato ai giornalisti. Erano rimasti così colpiti dagli attentati di gennaio che, quando si sono trovati in una situazione analoga, hanno reagito prendendo esempio dagli involontari protagonisti di quell’episodio. In pratica, non c’è più solo l’emulazione tra i jihadisti che si ispirano a vicenda per compiere atti sempre più barbari e violenti. C’è anche una specie di cultura dell’ostaggio che, volente o nolente, ciascuno di noi sta assimilando dalle cronache dei giornali e dalle testimonianze dei sopravvissuti. Al di là del sollievo e dell’ammirazione per la lucidità della coppia romana, è un fenomeno agghiacciante. Quasi più degli attentati in quanto tali.



Lo scopo del terrorismo, infatti, non è la vittoria militare. È la vittoria psicologica che altera le percezioni, modifica i comportamenti e sostituisce la fiducia con la paura. Nel momento in cui riesce a convincerci che, tra le evenienze alle quali dobbiamo prepararci nel corso di una giornata normale c’è, per quanto remota, anche quella di essere presi in ostaggio da un commando di jihadisti, il terrorismo ha già raggiunto una parte dei suoi obiettivi: si è impadronito di un pezzo della nostra vita per plasmarlo a propria immagine e somiglianza.





La forza del terrorismo sta nel fatto che ci mette tutti in prima linea. Durante la seconda guerra mondiale c’erano si i bombardamenti che costringevano donne e bambini nei rifugi, ma nel frattempo si sperava che i soldati sul fronte vincessero la guerra. Oggi sul fronte non c’è più alcun esercito. Solo i turisti caduti due giorni fa sotto i colpi dei jihadisti di Tunisi come, prima di loro, i clienti del negozio parigino e i vignettisti di Charlie Hebdo.



L’assenza di una trincea visibile, però, non significa che una linea di fronte non esista. Solo che sta ad ognuno di noi tracciarla dentro di sé. Non è un caso se i terroristi se la prendono così frequentemente con i simboli della cultura e dell’informazione. La battaglia è, prima di tutto, psicologica e culturale. La si vince non cedendo alla paura, all’intolleranza e alla violenza. «Keep calm and carry on», dicevano gli inglesi durante i bombardamenti di Londra. Oggi, dopo le prime vittime italiane dell’Isis, possiamo tradurlo: «Stiamo calmi e andiamo avanti».