Elezioni in Gran Bretagna, la resa degli sconfitti
Si dimettono Miliband, Clegg e Farage: «Colpa nostra»

Ed Miliband di fronte alla sede dei Laburisti dopo la sconfitta (Foto Lapresse)
di Luca Lippera
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Venerdì 8 Maggio 2015, 16:06 - Ultimo aggiornamento: 21:22
Detto fatto. I leader dei partiti umiliati e travolti dalle elezioni in Inghilterra ne hanno tratto immediatamente le conseguenze. Ed Miliband, il capo dei Laburisti, il liberaldemocratico Nick Clegg e il vulcanico Nigel Farage dell'Ukip, che pure ha preso quasi il 13% dei voti, si sono dimessi in rapidissima successione mentre venivano investiti dallo tsunami dei risultati. L'avevano promesso, hanno mantenuto la parola: colpa nostra - è il messaggio ai cittadini - e i supporters li hanno comunque applauditi mentre si presentavano come “imputati” per dire senza giri di parole di aver fallito. E' l'Inghilterra, è come nel rugby: si vince e si perde ma senza isterie.



Il primo a gettare la spugna, alle undici e mezzo di questa mattina, in una conferenza stampa a Londra, è stato il leader Liberaldemocratico Nick Clegg. Era al governo con Cameron da cinque anni, è stato rieletto nel collegio in cui si candidava - Sheffield Hallam, Inghilterra del Nord - ma il partito è stato annientato. Aveva cinquantasette deputati, ne conserva otto. Impossibile non prendersela anche con se stessi. «Mi aspettavo che queste elezioni fossero eccezionalmente difficili per i Libdem - ha dichiarato Clegg, 48 anni, figlio di un banchiere, sposato con un'avvocatessa spagnola - Ma i risultati sono stati incommensurabilmente più devastanti e crudeli di quanto avrei mai potuto immaginare». Basta così, arrivederci, avanti un altro.



Per Ed Miliband, 46 anni, leader del Labour, laurea in Economia al Corpus Christi College di Oxford, l'addio è stato anche più amaro: carriera politica compromessa, probabilmente. Che l'uomo puntasse in alto e che conosca da sempre il fuoco dell'ambizione fu chiaro alcuni anni fa quando liquidò senza tanti complimenti il fratello maggiore David, ex Ministro degli Esteri, in una battaglia intestina per la guida del partito. Ed, che si chiama in realtà Edward Samuel, figlio di un teorico marxista ebreo di origine polacca, non ha mai convinto del tutto la base laburista e alcuni hanno continuato a ritenerlo inadatto alll'incarico.



Ieri poco dopo l'ora di pranzo Miliband si è presentato con la moglie negli uffici centrali del partito a Londra e ha pronunciato una frase che dev'essergli costata da matti: «I quit, mi dimetto». «La Gran Bretagna - ha aggiunto - ha bisogno di un partito laburista forte ed è giunto il momento che qualcun altro ne assuma la leadership. Ora è necessario un dibattito aperto e onesto, senza ipocrisie sul nostro futuro. Ci siamo rialzati in passato, lo faremo ancora in futuro». La gente lo ha applaudito e gli applausi, per una volta, sono sembrati totalmente sinceri.



Alla regola delle dimmisioni, e alla parola data, non ha voluto sfuggire neppure Nigel Farage, 51 anni, due moglie, quattro figlie, indiscusso leader dello United Kingdom Independence Party. L'Ukip, che pure ha preso tre milioni di voti, ha ottenuto un solo seggio - il sistema maggioritario è feroce - e il vulcanico Farage è stato sconfitto in quello in cui si candidava: South Thanet, sud-est della Gran Bretagna, conquistato dal conservatore Craig MacKinlay per duemila schede. «Sono un uomo di parola - ha detto Farage, un ex broker, annunciando pubblicamente la scelta - Non abbiamo commesso errori. Ci penalizza un sistema elettorale che consente ai nazionalisti scozzesi di prendere cinquanta seggi con pochi voti e ne attribuisce uno solo a noi che abbiamo il tredici per cento. Serve una profonda riforma. Una parte di me è delusa. L'altra è più felice di quanto non sia stata da molti anni. Mi sento sollevato da un peso enrome». Comunque se ne va e se mai dovesse tornare - in un futuro congresso del partito - lo avranno deciso cittadini ai quali ha offerto la sua testa, come avrebbe fatto con il boia sul patibolo.
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