Provenzano/ Un mito costruito sulla latitanza, ma Messina Denaro non è l’erede

di Salvatore Lupo
5 Minuti di Lettura
Giovedì 14 Luglio 2016, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 00:27
Dunque Provenzano è morto. Era già da tempo in preda a un grave processo di deterioramento mentale, che ha provocato qualche discussione. Discussioni sull’opportunità di tenerlo nel regime di carcerazione speciale, il 41bis. Era stato arrestato dieci anni fa, l’11 aprile del 2006, 13 anni dopo il suo boss Salvatore Totò Riina. 

Ripercorriamo le cronache della cattura di Provenzano. Al pubblico apparve come un vecchio alquanto malmesso, sprovvisto di guardaspalle e di qualsiasi altro dei simboli del potere criminale, economico, politico che immaginereste necessariamente connessi alla figura di un capomafia. Venne sorpreso in un cosiddetto “covo” ubicato nelle campagne prossime a Corleone, e più precisamente in una stalla fornita di arredi primitivi e semplicissimi strumenti rustici, dove egli consumava non caviale e champagne ma, più modestamente, ricotta e cicoria. La stampa pose grande enfasi nel riportare questi elementi, e i soliti esperti sproloquiarono sull’etica anticonsumistica, ovvero antimoderna, che a loro dire sarebbe tipica dell’eterna mafia rurale. Invece, palesemente, la stalla non era per nulla il covo da dove Provenzano governava Cosa nostra, ma il posto nel quale in ultimo si era rifugiato (o dove era stato scaricato dai suoi?) quando la pressione degli inquirenti si era fatta insostenibile.

La mafia viene usualmente raffigurata secondo gli schemi di un’usurata mitologia tradizionalista, e in questa veste, da sempre, la si vende meglio: ciò che spiega il perché questi elementi di colore siano stati accentuati a dismisura, al limite della falsificazione. È vero invece che la Cosa nostra corleonese era tutt’altro che un fenomeno folcloristico tra il 1979 e il 1993, nella fase in cui insanguinava la Sicilia e minacciava con attentati terroristici – prima mirati, poi anche indiscriminati - la nostra Repubblica. Parliamo peraltro di una stagione storica terminata, speriamo definitivamente. I lettori più giovani avranno l’impressione di sentire evocare un fantasma. Infatti la mafia-Cosa nostra, dopo il 1993, si è resa d’un tratto silente, e tale è rimasta nei 23 anni seguenti: tanto da indurre studiosi, operatori e semplici cittadini a chiedersi se esista al giorno d’oggi, a Palermo e in Sicilia, una realtà politico-criminale definibile con quel nome, con una chiara relazione di continuità con il passato. 

Su questa alternativa rottura/continuità si gioca la domanda: era, Provenzano, il super-boss di Cosa nostra? Era davvero il successore di Riina? A Riina, nelle inchieste degli anni ’80, era stata appunto attribuita la qualifica del supercapo della Commissione o Cupola di Cosa nostra. Diciamo però da dove derivava la sua forza. Derivava in larga parte nel controllo di gruppi di fuoco in grado di sterminare gli aderenti ai gruppi mafiosi avversi, ma anche di attuare quasi con sistematicità la pratica degli omicidi “eccellenti” - colpendo da un lato gli amici del mondo “di sopra” che si mostravano riottosi a eseguire gli ordini, dall’altro gli uomini delle istituzioni che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 avevano impresso un nuovo dinamismo all’azione antimafia. Da Riina vennero ridotte all’obbedienza le singole cosche o “Famiglie” del Palermitano, in particolare quelle coinvolte negli allora lucrosissimi narcotraffici siculo-americani; sotto la sua guida, Cosa nostra entrò a piedi giunti nei conflitti tra le correnti democristiane, non temette di distaccarsi ostentatamente dalla tradizionale linea di deferenza nei confronti dell’élite amministrativa e sociale. 
 
È attestato, da atti giudiziari e intercettazioni, che dopo il 1993 Provenzano si mostrò ben conscio della necessità di mutare strada. Sappiamo che invitava i suoi a mantenere atteggiamenti prudenti e sotto traccia, a evitare le azioni violente per non esporsi ai colpi della repressione; che dava loro indicazioni di buon senso sul modo migliore di accordarsi nella spartizione pacifica degli appalti e degli altri affari; che si occupava soprattutto del modo di garantire la propria stessa latitanza. Molto si discute sulla “moderazione” di Provenzano, che alcuni vorrebbero anteriore alla cattura di Riina. Non mi sembra che ci siano elementi di prova sufficienti per pronunciarsi in tal senso.

Sento poi troppo spesso dire che la sommersione di Cosa nostra fu dettata dall’astutissimo super-decreto di un super-capo. In realtà si trattò di una scelta di necessità dovuta ai colpi senza precedenti cui l’organizzazione fu sottoposta in quel periodo, e che portarono in galera la grande parte del suo gruppo dirigente e del suo quadro intermedio. Contrariamente a quello che a molti piace (chissà perché) pensare, non sempre la mafia vince e quella volta non ha vinto. Trattò con qualcuno degli apparati dello Stato, Provenzano, per rimanere libero altri tredici anni? È possibile: anche se la farraginosa macchina giudiziaria messa su per scoprire qualcosa di questa fantomatica trattativa non è fino ad ora arrivata a niente – anzi, numerose sentenze hanno regolarmente smentito l’impianto dell’accusa.

Si vede dai documenti disponibili che Provenzano agiva più da grande mediatore che da grande capo. L’evidenza del fatto è stata a lungo rifiutata. La comunicazione pubblica ha sempre avuto bisogno di credere che il crimine risponda a monarchi assoluti del crimine, o “vice lord”, come dicono gli americani: ed in effetti i casi più classici di costruzione mediatica di questo tipo di figura riguardano proprio la criminalità organizzata americana e personaggi come Al Capone, Lucky Luciano, Vito Genovese, Carlo Gambino. Non stupisce che, catturato Provenzano, l’opinione pubblica abbia subito indicato come successore Matteo Messina Denaro – come se nulla fosse cambiato e nulla dovesse mai cambiare. 

Invece il potere mafioso ha di necessità assunto nuove forme nella mutata situazione che non vede più pesare sui vari soggetti del network politico-affaristico-mafioso l’immediata minaccia della massima sanzione, la morte; ed è solo per pigrizia mentale che molti osservatori hanno dato per scontato che Provenzano avesse ereditato l’intero potere politico-finanziario e “militare” accumulato dal suo predecessore, che le medesime competenze gli si fossero trasmesse intatte come per un meccanismo di successione monarchica. Né vale, a certificare i superpoteri attribuitigli, la lunghissima latitanza. In fondo il rango che gli è stato attribuito è derivato proprio dal suo essere rimasto per lunghissimo tempo l’ultimo rimasto libero del gruppo corleonese, l’unico in grado di svolgere le sue mansioni (quali che fossero) tra i molti che sono stati nel frattempo associati alle patrie galere e che erano a suo tempo di rango superiore al suo - senza che ciò li abbia salvati dalla cattura. Insomma, non rimase latitante per decenni perché era un super-boss, ma divenne un super-boss perché era rimasto latitante per decenni. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA