Cortese, il superpoliziotto che lo catturò: «Il suo arresto segnò il declino di Cosa Nostra»

Cortese, il superpoliziotto che lo catturò: «Il suo arresto segnò il declino di Cosa Nostra»
di Cristiana Mangani
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Giovedì 14 Luglio 2016, 10:40
ROMA «Mi chiamo Bernardo Provenzano, sono nato a Corleone il 31 gennaio del 33. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». E' il mese di aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza, il boss dei boss è nelle mani dello Stato. Non parla davanti al pm, e non lo farà mai, rinchiuso al 41 bis fino a poche ore prima della morte. Riserva una sola espressione agli uomini che hanno messo fine alla sua fuga: quel sorrisetto beffardo che non leverà più dalla faccia. Sin dal momento in cui Renato Cortese, poliziotto di razza, all'epoca funzionario dello Sco, oggi al vertice del Servizio centrale operativo, non ha sfondato la porta di quel misero casolare dove u tratturi aveva trovato rifugio e gli ha messo le manette ai polsi.

Dottor Cortese, quale è stato il primo pensiero quando ha saputo che Provenzano era morto?
«Come in un flash, mi sono venute in mente tutte le immagini della cattura, quegli otto anni di indagini senza respiro. Con l'unico obiettivo di trovare il fantasma di Corleone, il mito dell'imprendibile».

Come ci siete arrivati?
«Abbiamo prosciugato l'acqua del boss con un'attività lunga e articolata. Gli abbiamo sequestrato un intero patrimonio, barche a San Vito Lo Capo, nel trapanese, immobili. E mentre cercavamo lui abbiamo catturato altri due super latitanti, il braccio destro e il braccio sinistro. Decine di mafiosi. Siamo partiti dalla rete che lo proteggeva e poi abbiamo seguito i famosi pizzini che scriveva per dare i suoi ordini, e abbiamo rintracciato i postini che li consegnavano. Finché il re è rimasto nudo».

E ha dovuto rintanarsi a Corleone, nel suo territorio.
«L'unico territorio che era rimasto intaccato, quello dove poteva sperare di trovare ancora protezione e da dove era scappato nel 1963. Gli abbiamo veramente fatto terra bruciata intorno».

Trenta uomini dedicati alla caccia di u tratturi.
«Giorni e notti passati a parlare di lui, a guardare fotografie, fare comparazioni, seguire i familiari, in giro per i vicoli palermitani a inseguire persone collegate. Era un gruppo di investigatori coordinati da me, composto veramente da persone straordinarie. Venivano dalla Catturandi e dallo Sco, tutti molto preparati sull'attività di contrasto a Cosa Nostra».

Poi è arrivato l'11 aprile di dieci anni fa, Provenzano che si consegna senza fare resistenza. Che significato ha avuto per lei quella giornata?
«Sono stato io a scendere dal fuoristrada e a sfasciare la porta del casolare. E' difficile trovare le parole per quell'immagine. Avevo passato così tanto tempo a cercarlo che quando me lo sono trovato davanti mi è sembrato di averlo già conosciuto. Eppure non lo avevo mai incontrato, anche perché lui diventa latitante quando io ancora dovevo nascere, nel 63. Nei 43 anni di caccia la gente diceva chiuddu non lo pigghiate mai. Era talmente un sogno per tutti noi che mi è sembrato un deja vu, qualcosa di già visto».

Vi siete detti qualcosa?
«Solo uno sguardo. Lo abbiamo immaginato così tante volte che quando ce lo siamo trovato davanti non c'è stato bisogno di chiedergli chi fosse. Sapevamo che era lui. Aveva scelto un casolare modesto per la sua fuga e mi ha colpito molto ritrovare quelle cose che avevo cercato per anni. Abbiamo inseguito i pizzini, ed erano tutti lì. Decine e decine. Stava scrivendo anche in quel momento, stava rispondendo, con la macchina da scrivere. In un primo momento è sembrato impaurito, non sapeva chi aveva davanti, se la polizia o qualcuno che voleva saldare i conti. C'era il miele. Il suo cibo: la cicoria, la ricotta. C'era ogni cosa in quel covo. Otto anni della nostra vita racchiusi in quei pochi metri quadrati. Sicuramente emozionante per me, per la Polizia di Stato. Abbiamo avuto la consapevolezza di aver raggiunto un obiettivo dello Stato, avevamo sconfitto il mito dell'invincibile».

Cosa ha cambiato l'arresto del boss?
«E' stato qualcosa di molto importante per la Sicilia intera, perché ha coinciso con l'inizio del declino di una certa Cosa Nostra. E voglio dirlo: mi fa piacere essere stato in qualche modo protagonista di quel contrasto alla mafia, di aver creato il convincimento nella gente di Sicilia, che forse la battaglia contro Cosa Nostra si poteva superare e vincere. E infatti da quel momento inizia anche un fermento di imprenditori che collaborano, e Confindustria che fa una certa scelta. La cattura ha coinciso con un moto di rivoluzione sociale e civile».

Quando lo avete portato alla Squadra Mobile la gente ha applaudito. Non era mai successo a Palermo.
«E' stato uno dei momenti più toccanti di quella giornata. La Sicilia ha avuto una reazione di liberazione. Hanno sentito il bisogno di dire bravi. Dieci anni prima, quando ho catturato Brusca, l'uomo che materialmente ha schiacciato il telecomando a Capaci, c'erano solo poliziotti ad accoglierci. Ma cattura dopo cattura, risultato dopo risultato, le persone hanno capito che qualcosa stava accadendo. Si sono sentite libere di manifestare la loro gioia. Ecco credo che, al di là dell'arresto vero e proprio, sia stato un momento storico. E' stata scritta una pagina che ha cambiato la mafia in Sicilia».

Manca all'appello Matteo Messina Denaro, si può considerare lui l'erede di Provenzano e Riina?
«Non è facile definire con certezza cosa stia succedendo all'interno di Cosa Nostra. Sicuramente non è la stessa organizzazione che abbiamo conosciuto fino a 15 anni fa. E ha inciso l'arresto dei capi, il sequestro di tantissimi beni. In questo momento storico, probabilmente, Cosa Nostra è in forte difficoltà soprattutto perché sta cercando di ritrovare una sua unitarietà. Matteo Messina Denaro è un latitante di rilievo, che ha già una sua permanenza nella latitanza significativa e che ha vissuto gli anni pesanti di Cosa Nostra della forte contrapposizione con lo Stato. Il 92-93. Ha 54 anni, e dal punto di vista generazionale è molto più giovane, ma era un rampollo dei boss, ha seguito quegli anni caldi della strategia dell'eversione. Il fatto che provenga dallo stesso gruppo non vuol dire però che oggi lui possa essere considerato il boss, perché non ci sono elementi per sostenere che sia l'erede di Provenzano. Possiamo, con una ragionevole certezza, dire che sicuramente è il capo delle famiglie mafiose del trapanese, ma non che abbia assunto la leadership dell'intera organizzazione».