Mafia e istituzioni, Strasburgo boccia la zona grigia del concorso esterno

di Paolo Graldi
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Martedì 14 Aprile 2015, 21:49 - Ultimo aggiornamento: 23:57
C'è un giudice a Strasburgo, Corte Suprema dei diritti umani per l’Europa, che un giorno sì e l’altro pure, bacchetta, nelle sue diverse forme e dimensioni, il sistema giudiziario italiano. Ieri una nuova tegola, piuttosto rumorosa.



Una tegola caduta sulla intricatissima storia di Bruno Contrada, ex supersbirro in terra di mafia e poi spione di Stato, secondo l’accusa ammanicato con i clan mafiosi d’alto lignaggio criminale (Riina), condannato a dodici anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. All’epoca dei fatti (1979-1988) quel reato «non era sufficientemente chiaro» e dunque Contrada non poteva essere condannato.



L’altro ieri la stessa Corte aveva lanciato un altro assalto: siete un Paese, aveva sentenziato a proposito dei fatti sanguinosi di Genova durante il G8 del luglio 2001 - Scuola Diaz e Caserma Bolzaneto, orrendo pestaggio della polizia a manifestanti inerti, sessanta feriti, alcuni assai gravi - nel quale si pratica la “tortura” ma i colpevoli vengono mandati assolti perché manca il reato, l’imputazione corretta non si può contestare, come avviene quasi ovunque, altrove, in Occidente.



Su Contrada da Strasburgo avevano già lanciato strali. Nel febbraio dell’anno scorso era stato scritto che il detenuto andava portato dal carcere ai domiciliari: stava male, condizioni incompatibili con il regime delle celle. Adesso la posta in gioco è la più alta: la revisione del processo. Meglio: dei processi, perché prima della condanna definitiva a dodici anni l’ex capo della Mobile di Palermo al tempo di Cosa Nostra sovrana, ha subito tutti i gradi di giudizio e in un appello è stato pure assolto. Poco gli importa, ora, del risarcimento di 10 mila euro (ne aveva chiesti 100 mila), quel che Contrada chiederà finché avrà fiato in corpo, e a 84 anni con quel che ha passato non sa quanto gliene resta, è la piena assoluzione da tutte le accuse. Accuse lanciate da un manipolo di pentiti 23 anni fa: «Una vita devastata, ho subito sofferenza, dolore, umiliazione con danni fisici e morali per me e la mia famiglia». Il volto accartocciato, trasfigurato, la barba lunga, incolta, lo sguardo acquoso, Contrada ripete la sua litania come un mantra. Lo ha fatto anche di recente, rosso di furore avvolto dall’affetto degli ex compagni in polizia rimasti fedeli amici, presentando in una libreria di periferia il libro testimonianza “La mia prigione”, raccontata dallo stile squisito e intatto di Letizia Leviti, giornalista di SkyTG24.



La parabola di una vita davvero controversa, attraversata da una moltitudine di incontri tutt’affatto speciali: mafiosi doc, magistrati del calibro di Falcone e Borsellino, il rapporto crudo con il suo accusatore al processo, Ingroia, una requisitoria lunga ventidue udienze per ottenerne la condanna, fino a quel rapporto dell’82, dopo l’assassinio di Pio La Torre, nel quale per la prima volta si parla di una “zona grigia”, un territorio vischioso e rischioso tra le terre di mafia e il territorio dello Stato. Tante domande, tante risposte.



Difficile dire se l’ostinazione di Contrada nel dichiararsi innocente, al termine di un percorso di sofferenza individuale e famigliare davvero al limite di tutto, sia credibile, accettabile, o se proprio perché i fatti si sono svolti nel pianeta dei delitti e dell’omertà una verità appagante sia irraggiungibile. Certo, la ricerca dell’onore perduto, di un’accusa vissuta come un’infamia, ci consegnano un uomo degno di rispetto. Resta da capire se quel conto con la giustizia, i lunghi patimenti in carcere, dovesse pagarlo Contrada. E solo lui.



La sentenza della Corte Suprema, ovviamente ha riacceso la polemica politica: chi s’affretta a dire che non si tratta di un’assoluzione ma di un verdetto sulla giurisprudenza deficitaria e chi, come Renato Brunetta, grand commis autorizzato di Forza Italia, vede un verdetto che, da Cuffaro a Dell’Utri, riapre la controversa questione di come amministrare un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, sul quale si sono esercitati fior di giuristi e che mostra nei contorni zone d’ombra o, come direbbe Contrada, “zone grigie”.



Un reato, confezionato e inserito nel nostro codice al tempo di Giancarlo Caselli alla guida della turbolenta Procura della Repubblica di Palermo. La vasta “zona grigia” tra le Cosche e i tanti amici tutt’intorno, giacca e cravatta, camicia immacolata. La Suprema Corte di Cassazione si è inoltrata più volte sull’accidentato terreno del “concorso esterno”, con pronunce diverse ma alla fine con una giurisprudenza accettata e praticata.



Dal giudice di Strasburgo, dopo le carceri disonore italiano, la tortura che non c’è, il carcere che non spettava a Contrada, arriveranno presto altre tegole. Non ci piacciono, non ci fanno onore, forse qualcuna perfino non la meritiamo. Ma il lavoro da fare verso una giustizia giusta è ancora lungo. Quasi commuove Contrada quando riafferma la sua ferma fiducia nella Giustizia: «Voglio l’onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato».