Di Maio si dimette, l'asse Grillo-Conte e il flop alle urne; così Luigi ha perso il bastone del comando

Di Maio si dimette, l'asse Grillo-Conte e il flop alle urne; così Luigi ha perso il bastone del comando
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Giovedì 23 Gennaio 2020, 07:35

Baciò una volta l'ampolla del sangue di San Gennaro e quel suo antico conterraneo fece il miracolo di creare Di Maio leader e statista. Come capo politico M5S ha resistito due anni e mezzo e lui li descrive come una «via crucis attraverso le pugnalate» degli ingrati e dei «traditori», mentre tutti quelli che ipocritamente ieri lo applaudivano di continuo al tempio di Adriano, fingendo di commuoversi, li hanno sempre subiti come una satrapia. E comunque, se Luigi o Luigiotto, come lo chiamano in famiglia, a dieci anni sognava di fare il poliziotto con la pistola e a diciotto staccava biglietti allo stadio, a ventisei è diventato vicepresidente della Camera. A trentadue ministro del Lavoro, nonché vicepremier, e poi l'ascesa alla Farnesina. Con Virginia Saba, la fidanzata bella, bionda e sarda, a fargli da musa e da unico sostegno. Perché Grillo, già dall'estate scorsa, quando Di Maio proprio non voleva il governo con il Pd e si sentiva onorato dall'offerta di Salvini («Luigi restiamo insieme, e il premier lo fai tu»), aveva scelto Conte come capo reale di M5S. Ora la fine ufficiale. Di un percorso in cui tra impuntature ideologiche («Finché ci sono io la Tav non si farà mai») e accuse ai «potentati» che «ci combattono perché facciamo paura al sistema», nulla è filato liscio.

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LA DISCESA
Adesso rinuncia al balcone di capo e proprio da un balcone - quello di Palazzo Chigi - è cominciata la disgrazia : «Abbiamo abolito la povertà», gridò Di Maio. Dimostrando al mondo la vacuità del non professionismo politico e la morale di questa storia. E cioè che non basta l'investitura dei superiori, Grillo & Casaleggio, per diventare un vero condottiero. Nel video surreale all'Hotel Forum, l'Elevato fingeva ancora di credere nella sua creatura, e dunque Beppe lo benediva per l'ultima volta poggiandogli la mano sul collo. Oppure lo stava strozzando con una carezza?
Lui si presentò alle parlamentarie del 2013 e vinse con 189 preferenze racimolate on line. Da lì, la grande ascesa. Ma il tonfo prima o poi doveva arrivare. «Gli è rimasto il passo di Napoleone, infieriscono su di lui diversi parlamentari entrando al tempio di Adriano, «ma almeno quello lasciamoglielo». È rimasto vittima anche della rabbia di chi non diventava ministro («Perché quello sì, e io no?» «Ma Luigi non vede che sono più bravo io di quel carciofo di Fraccaro?»), delle trame dei «traditori» e della rivolta di chi non vuole pagare l'obolo a Casaleggio, l'ultimo a scaricare Di Maio.
Il problema però non è Di Maio in sé ma è la fine politico-culturale del grillismo come palingenesi sociale (la povertà ancora esiste) e come superamento dello schema destra-sinistra. «Ho giurato di essere né-né ma oltre le vecchie distinzioni», diceva. Poi però si è fatto spolpare da destra, al tempo giallo-verde, e si fa spolpare da sinistra oggi. «Io non sarò un fenomeno ma non lo sono neppure gli altri», ha ripetuto in questi mesi di fuoco amico. La questione non è legata soltanto alle sue (relative) capacità professionali o alle gaffe (i congiuntivi sbagliati, o il presidente cinese che non è Ping). Di Maio è stato travolto dal fatto che M5S ha deciso di avere fiducia in Conte e non in lui; dal franceschinismo che si è appropriato o che sta ibridando ciò che resta del grillismo; dalla difficoltà di Luigi a calibrarsi sulla nuova stagione filo-dem; da Grillo che ha deciso di consegnare a Zingaretti una storia nata incendiaria e finita nazarenica.
È un tipo freddino, ed è stato con massimo stupore che lo si vide, per la prima volta, perdere le staffe (e il senno) quella domenica 27 maggio in cui chiese la messa in stato di accusa del presidente Sergio Mattarella: «Scenderemo in piazza il 2 giugno! Non rispetta le regole! Non è più l'arbitro imparziale!». Dall'indomani, però, solo salamelecchi verso il Colle su cui salì in retromarcia per chiedere scusa.
E' uno che doveva essere, dicendo «per favore» e non «vaffa», l'agente grillino che più presentabile degli altri (la cravatta anche sotto le lenzuola) s'incunea nella pancia del Palazzo e la depura dal di dentro. Ma niente, ed è finito assediato dai furibondi che vogliono smembrarne il potere e ridicolizzato da leader internazionali poco diplomatici. Il miracolato non s'è rivelato miracoloso né per stesso né per M5S (dimezzato nei sondaggi e al 16,1 nell'ultimo report dell'istituto Ixè) né per l'Italia. E ora, come si ironizza su Twitter, sono in vendita i biglietti per il primo vertice di maggioranza presieduto da Vito Crimi.
Mario Ajello
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