Romano Prodi ha fatto un tratto di strada politica in comune con De Mita. Di cui parla con commozione ma anche con la consueta lucidità.
Professor Prodi, come nacque il suo rapporto con De Mita?
«Ho incontrato Ciriaco De Mita nel pieno della fase in cui era impegnato in una profonda riflessione sul passato e nella ricerca dell’innovazione. Percepiva con lucidità, ma non accettava la decadenza della Dc e dei partiti tradizionali».
Fu allora che lei, come figura priva di legami personali con i partiti, fu proposto dal segretario democristiano alla guida dell’Iri, mentre i socialisti di Craxi puntarono su un altro professore, Franco Reviglio, all’Eni?
«Quello fu il passaggio. Appena De Mita diventò segretario della Dc, si mise in questo percorso di ricerca.
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Ricorda la prima e l’ultima volta che vide De Mita?
«Ricordo bene il suo percorso di formazione, che è quello che conta. La fortissima passione per la politica che gli aveva trasmesso in Irpinia il padre, che era un sarto. Poi l’università Cattolica a Milano, dove fece molta analisi delle istituzioni politiche. La sua formazione è stata quella classica e che oggi viene rimpianta. I luoghi di crescita potevano essere l’Azione Cattolica, l’Università, le sedi e le scuole di partito, le associazioni, i sindacati. Questo valeva per la Dc, come per il Pci. Esisteva in questi luoghi una progressiva selezione naturale della classe dirigente. Il problema della politica e della società di oggi è che questi luoghi di selezione non esistono più e non sono stati sostituiti».
L’ultimo incontro con lui quando è stato?
«Da molto tempo non ci siamo più visti. De Mita, una volta uscito dalla politica, non frequentava il mondo dei convegni e delle riunioni. E’ tornato alla sua terra. Non è tornato a Nusco per farsi richiamare a Roma. E’ morto a 94 anni ed è morto da sindaco del suo paese. La fedeltà alla sua terra di riferimento è un elemento importantissimo che lo descrive pienamente».
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Voi due nella Seconda Repubblica però siete stati lontani. Perché?
«Perché De Mita ha sempre voluto tenere fede alle sue radici. Non si è trovato a suo agio nel cambiamento degli anni ‘90. All’inizio è stato nell’Ulivo, ha intrapreso questo percorso, ma poi non ha considerato l’Ulivo come la sua casa ed è stato coerente con la sua cultura di provenienza. Il suo grande tentativo di cambiare il Paese era stato, come dicevo prima, proprio in funzione del cambiamento della Dc e dello sforzo di farla rivivere. Ma allora, negli anni ‘90, la Dc non c’era più».
Non amava il bipolarismo?
«Non lo amava perché il bipolarismo non era nello spirito dei partiti in cui era nato e cresciuto. Io formalmente avevo la sua stessa formazione, ma i miei studi all’estero e il cambiamento dei tempi mi avevano spinto a una scelta politica diversa non negli obiettivi, ma nel modo di raggiungerli. Lui voleva cambiare i partiti esistenti, io invece pensavo che i partiti tradizionali non fossero in grado di trasformarsi in sintonia con il cambiamento dei tempi».
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E’ stato più uomo di corrente o uomo di Stato?
«Non potevi essere un uomo di Stato, se non eri un uomo di corrente. Le correnti sono state le robuste radici, ma anche i forti limiti, della Prima Repubblica».
In che modo è stato un uomo di potere?
«Non concepiva il potere solitario. Impiegava tantissime ore a parlare con Misasi e con gli altri suoi collaboratori. Quel tipo di potere lì era corale. Questa dimensione larga del potere si è persa. Anche se ci sono segnali di un suo ritorno. Così come sta tornando una certa nostalgia di più stretti rapporti tra politica e territorio. Pensi che oggi nessun parlamentare ha un ufficio nel proprio collegio elettorale e la maggioranza assoluta dei cittadini non sa chi sia e dove sia il parlamentare di riferimento. De Mita sapevano tutti chi era e dove stava. L’esigenza di quel valore territoriale, secondo me, piano piano si sta di nuovo affermando come una componente necessaria della democrazia».
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