Gli abiti di Charles Frederick Worth, cui si fa risalire la nascita della figura moderna di couturier. Le creazioni di Maria Monaci Gallenga, con le matrici per la tecnica di stampo a oro e argento su velluto. I costumi di Donati, Tosi, Pescucci, Canonero, ma anche l'alta moda di Schubert e Zecca. Senza trascurare Dior, Balenciaga, Saint Laurent, perfino un abito di Gianni Versace 1985/1986, donato a Tirelli Costumi e poi indossato una sola volta da Amal Clooney. Passato e presente si incontrano al tavolo dell'ispirazione sartoriale nella mostra Romaison, curata da Clara Tosi Pamphili, progetto voluto dalla sindaca Virginia Raggi, ospitato da oggi al 29 novembre al Museo dell'Ara Pacis, cui nel 2021 si aggiungerà la performance Embodying Pasolini con Tilda Swinton, curata da Olivier Saillard, ex direttore Museo Galliera di Parigi.
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IL CAMPUS
Nel percorso, il patrimonio delle sartorie di costume romane, da Costumi d'Arte Peruzzi ad Annamode, da Pieroni a Tirelli e Farani.
L'ATTRICE
A sottolineare la vitalità del settore, la performance. «Gli archivi di costumi per me non sono musei ma come foreste, vivi - commenta l'attrice Tilda Swinton, collegata dalla Scozia - ero emozionata davanti ai capi per i film di Pasolini. I costumi per il cinema sono su misura, non si conoscono come manufatti fisici, vivono una sola volta, indossati da un attore, sul grande schermo. Sono abiti ma, in realtà, molto di più». Intanto la ricchezza del patrimonio si può apprezzare in mostra, in un allestimento studiato per restituire le atmosfere di una sartoria tra tavoli da laboratorio, salottini di prova, scaffali di forme per cappelli e manichini. Ad essere esposte sono creazioni delle sartorie e, per la prima volta, abiti e capi delle loro collezioni storiche, con pezzi che risalgono fino al Seicento.
A comporsi è una sorta di sfilata tra secoli di eleganza. Ci sono gli abiti di Gallenga, che con la sua Boutique Italienne, concept store ante litteram, ha promosso la creatività italiana all'estero dal 1928 al 1934 e i costumi per L'Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci, Cleopatra con Elizabeth Taylor, Barbarella con Jane Fonda, Salò di Pasolini, e così via fino a quelli per Miss Marx, presentato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, e per serie tv. Poi, i cappelli, da quello di Johnny Depp in La fabbrica di cioccolato a quelli disegnati da Valentino per La Traviata diretta da Sofia Coppola. Esposta una parure Bulgari di Silvana Mangano che volle indossarla anche in Gruppo di famiglia in un interno. Nell'iter, da Satyricon di Fellini, l'abito di Donyale Luna, prima modella di colore sulla copertina di Vogue nel 1966. Ad accompagnarlo, un'aspra critica di Harper's Bazaar. «È quanto è accaduto ad Armine Harutyunyan - dice la curatrice - il nuovo spaventa sempre».
Il dialogo tra moda e costume è chiave del percorso. E peculiarità romana, alimentata dal cinema. «Il 1947 è stato un anno fondamentale - conclude Tosi Pamphili - mentre Roma si ricostruiva, si reinventava. La moda era fatta da persone non del settore, penso ai costumi di Fellini, a quelli di Tosi, allievo di Ottone Rosai, a Salvatore Ferragamo, che sognava il cinema ed è diventato designer. Non conoscendo il settore, hanno adottato soluzioni nuove. La moda romana è anarchica. Si reinventa da sola. Costantemente».