Olivier Norek, lo scrittore poliziotto: «Vi porto nella benlieue, tra ladri e cannibali»

Esce "Codice 93" dell'autore francese, ambientato nella periferia più difficile di Parigi

"L'odio" di Kassovitz
di Riccardo De Palo
4 Minuti di Lettura
Sabato 2 Marzo 2024, 15:03 - Ultimo aggiornamento: 15:15

«Questa non è Hollywood, è la Seine-Saint-Denis.» Olivier Norek è un ex poliziotto del distretto periferico più problematico di Parigi, di cui è appena uscito Codice 93, il primo libro della Trilogia della banlieue. Gli parliamo a Roma, dove è stato per presentare il romanzo edito da Rizzoli. Norek ha un'aria allegra, affabile: gli orrori che ha visto sembrano non averlo toccato.


Cosa l'ha spinta a scrivere?
«Un giorno mi è arrivata una mail: era un concorso per il migliore racconto breve. Sapevo di non essere tagliato, perché alla maturità in francese mi avevano dato soltanto 5 su 20. E quindi ho cancellato il messaggio. Poi siamo tornati a lavorare, il mio vice stava redigendo un verbale. E mi è arrivata per la seconda volta la stessa mail. L'ho cancellata. Poi, quando sono tornato a casa alle dieci di sera, è spuntata di nuovo, e mi sono convinto che era destino. Il mio racconto è arrivato terzo. Poi un editore mi ha chiesto: me ne scriverebbe uno più lungo? Mi sono messo a lavorare tutta la notte, erano le prime pagine di Codice 93».


Le manca il lavoro in divisa?
«È un'esperienza che mi ha arricchito molto. Le persone in situazioni di difficoltà, le vittime, sono senza maschera, sono messe a nudo. Per i criminali, invece, vale la regola opposta: è tutta menzogna, e il poliziotto deve capire dove si celi la verità. Le disgrazie colpiscono ovunque, i quartieri più elitari e quelli più difficili. Avendo pochi mezzi, dovevamo fare di tutto, soprattutto in questo dipartimento 93 dove ho indagato, nell'ambito di ogni genere di crimini: omicidi, rapine, rapimenti. E anche un cannibale».


Un cannibale?
«Mi sono trovato davanti a questo corpo femminile, parte del ventre era stato mangiato. Abbiamo presto capito che era stato l'amante a farla fuori. Ma quello che mi ha colpito è stato guardare la biblioteca della vittima, vedere libri che avevo letto anche io, gli stessi miei dischi. C'era la musica dei Genesis, di Georges Brassens. I libri di Giulio Verne, Il giovane Holden di Salinger... Mi sono reso conto che io e questa donna avevamo amato le stesse cose. Lei era come me».


Mi parli del suo protagonista, il capitano Victor Coste.
«Ha gli occhi azzurri, un gran fisico e indaga nel dipartimento numero 93. In Francia escono mille gialli all'anno, ma io sono il primo autore a mostrare le indagini dall'interno. Il mio lettore non è un semplice spettatore: è dentro la macchina insieme ai poliziotti, nella sala dove si svolgono gli interrogatori, sulla scena del crimine.

Il lettore è uno del team».


Un punto di vista invidiabile, per uno scrittore, non trova?
«Assolutamente, ma il polar si sta democratizzando e appartiene un po' a tutti. Lo storico lo ambienterà al tempo della Rivoluzione francese, lo scienziato parlerà di nuove tecnologie... Bisogna scrivere il libro che ci assomiglia. Io posso utilizzare il lessico che si usa sul campo, e questo è il mio vantaggio. Camilleri probabilmente non conoscerà benissimo il mondo della polizia, ma il suo Montalbano sa benissimo cosa gli è stato preparato da mangiare. Camilleri ha creato il personaggio che più gli è affine: non un supereroe, o un avventuriero, ma un poliziotto che ama mangiar bene».


Cosa l'ha colpita di più, sul campo?
«Un episodio in particolare mi ha aiutato a capire che l'empatia e i sentimenti sono da evitare, come se fossero parassiti. Mi chiamano perché bisogna indagare su una bambina di undici anni che è morta nel suo letto. I genitori mi dicono che si è uccisa ingerendo farmaci, allora li consolo, la madre mette la testa sulla mia spalla e il padre fa altrettanto. Ma un agente si avvicina e mi dice: guardi che il corpo è freddo, dev'essere morta 48 ore fa. Le indagini hanno poi dimostrato che era stato il padre a uccidere la bambina».


E cosa l'ha colpita, invece, in positivo?
«Ogni giorno era meraviglioso, perché arrivavi al lavoro per riparare una situazione d'ingiustizia. È vero che a livello globale non cambia nulla, ma per le persone coinvolte faceva una grossa differenza. Da poliziotto vedevo tutte queste disgrazie e stavo bene, perché quando entravo in azione, cercavo di riparare il mondo. Oggi che sono uno scrittore, e non posso fare nulla, il mondo mi ferisce».


La più grande soddisfazione?
«Per due anni ho lavorato nel dipartimento che si occupava di violenze e siamo riusciti a catturare uno stupratore seriale, alla sua tredicesima vittima. Lo abbiamo preso in custodia, lo abbiamo fatto confessare e poi il giudice ha convalidato l'arresto. Quando all'alba sono tornato a casa, mi sono sentito orgoglioso, perché c'era una minaccia in meno sulla faccia della Terra».

Olivier Norek. Foto di Paulina Darley
© RIPRODUZIONE RISERVATA