Antonio Manzini, "Tutti i particolari in cronaca": nel primo Giallo Mondadori del papà di Rocco Schiavone il detective è un giornalista

Antonio Manzini, "Tutti i particolari in cronaca": nel primo Giallo Mondadori del papà di Rocco Schiavone il detective è un giornalista
di Riccardo De Palo
4 Minuti di Lettura
Sabato 6 Gennaio 2024, 12:32

«Assolto per non aver commesso il fatto». È la formula che ritorna come un mantra in Tutti i particolari in cronaca, il nuovo romanzo di Antonio Manzini, il primo da lui firmato per la collana Il giallo Mondadori, da martedì 9 gennaio in libreria (presentazione il 13 a Roma, Nuova Europa - I Granai - ore 12).

Un puzzle da ricomporre

Siamo nel 2018, a Bologna, ma il luogo lo si nomina soltanto alla fine, come ultimo tassello di un puzzle complicato da ricomporre. Il fallimento del sistema giudiziario (o il suo depistamento) continua a tormentare Carlo Cappai, metodico e solitario archivista del Tribunale, da quando il mandante dell'omicidio di Giada, l'amore della sua vita, l'ha fatta franca grazie a quella stessa formula assolutoria. Una vita in fuga, la sua. Da tutti. Dal padre giudice che lo avrebbe voluto avvocato (mentre lui preferiva la polizia), dall'intera famiglia umana.


La sua vita lambisce quella del giornalista del Gazzettino Walter Andretti, sfrattato a malincuore dalle pagine sportive per scrivere di cronaca nera. Inevitabile che alla fine si incontrino: è a lui che il giornalista si rivolge in archivio, per consultare gli atti giudiziari. Un lavoro di indagine che dapprima gli pesa - quanto vorrebbe tornare a occuparsi di trionfi sportivi - ma che finisce per appassionarlo. Malgrado tutte le umiliazioni subite in redazione, e le difficoltà a reperire fonti di notizie, in commissariato e tra i balordi della sua città.


Il papà di Rocco Schiavone, nel romanzo scritto per la collana che ha dato un nome al genere giallo in Italia, esplora un mondo fatto di insabbiamenti, di ingiustizie sistematiche, in cui il desiderio di vendetta, covato per decenni, alla fine esplode, in tutta la sua violenza. Ma chi sono veramente le vittime, e di chi è la mano del giustiziere? Manzini cita Erich Auerbach: «Il segreto deve essere cercato non esclusivamente nell'intreccio, ma nel narratore».


La sua è una storia mystery a orologeria in cui ogni ingranaggio si tiene, e che costituisce anche un atto d'amore per la cronaca nera, «una specie di olio viscoso che non si assorbe e resta sempre sulla pelle».

Ed è pure un romanzo di formazione, in cui il protagonista «che scriveva il meno possibile, che stava al giornale il meno possibile, che il lavoro non lo portava a casa», finisce per appassionarsi alla sua professione, e a diventare, in qualche modo, una persona diversa.

I personaggi del libro

Carlo Cappai è un personaggio molto riuscito, torbido e sinistro come certi personaggi di Hitchcock, ma anche ben determinato, con una missione da compiere e una visione morale: «Nessuno lo conosceva per davvero, solitario, grigio e sfuggente, una macchia delebile che il tempo avrebbe pensato a cancellare». E invece, «era un ragno che da quarant'anni tesseva la sua tela». Le sue ossessioni erano custodite in pesanti faldoni custoditi in una sezione dell'Archivio soprannominata "Purgatorio", dove si parcheggiavano i documenti processuali prima della loro definitiva distruzione.


Andretti finisce per indagare su una serie di omicidi con strani legami tra loro. «Scava, scarta, insegui la notizia», gli dice la sua capa, a cui affibbia un brutto soprannome (la str*) ma che finisce per diventare sua amica. L'uccisione di un uomo, vicino a un laghetto, in una macchina in cui si era appartato con una prostituta, diventa subito notizia esplosiva per i giornali locali. All'omicidio ne segue presto un altro. Per scoprire cosa lega tutti questi delitti bisogna tornare alle carte del tribunale, a tutti quei faldoni che Cappai sente sussurrare, come se chiedessero a gran voce che giustizia fosse fatta. Un avvocato lo paragona al minotauro, che si aggira in un labirinto di carte, ma lui risponde con ironia: «Mio padre non era un toro, al massimo una capra, e mia madre era figlia di un operaio». Eppure è lui a sentirsi responsabile delle ingiustizie altrui, e soprattutto della morte di Giada, quarant'anni prima. La sua colpa? Non aver «saputo rendere alla sua amica del cuore quel minimo di giustizia che ogni essere umano merita».

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