Droga e armi, così funzionava nel clan Di Silvio

Droga e armi, così funzionava nel clan Di Silvio
di Laura Pesino
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Giovedì 10 Dicembre 2020, 09:37

Gli affari della droga e le armi sempre disponibili. Così i pentiti raccontano le dinamiche e gli interessi del ramo della famiglia di Giuseppe Romolo Di Silvio e il potere passato di padre in figlio. Prima dell'arresto e della successiva condanna per l'omicidio di Fabio Buonamano era lui, il capostipite, cugino di primo grado del noto Armando Lallà, a gestire tutto.


Era lui che accentrava tutto il potere decisionale, indicava l'importo da dare per il mantenimento dei carcerati, suddivideva le piazze di spaccio, convocava tutti in caso di comunicazioni o modifiche di gestione e prendeva decisioni a cui tutti poi dovevano adeguarsi.
Ed era sempre lui che, anche durante il periodo di detenzione, indicava i ruoli apicali dell'organizzazione criminale, Era lo zingaro anziano, che viveva in un bunker quasi inaccessibile e che riceveva visite solo dopo una perquisizione («Erano molto attenti spiega Pugliese a non far entrare i telefoni»), che aveva a disposizione una Santa Barbara periodicamente rifornita e rimpinguata con nuove armi.
«Sono andato a casa di Romolo Di Silvio che ha sempre a disposizione armi perché teme aggressioni nei suoi confronti», dichiara Pugliese ai pm. E Agostino Riccardo spiega che Romolo è persona spietata, «per parlare con Romolo devi avere un grande spessore criminale».
L'altro collaboratore di giustizia Maurizio Zuppardo chiarisce ai pm che ad occuparsi dell'approvvigionamento delle armi e della loro custodia era Costantino detto Patatone e parla anche di un vecchio furto nella villa di un carabiniere nel corso del quale vennero sottratte diverse armi, in realtà mai ritrovate e presumibilmente ancora in possesso della famiglia.
Lo spaccio della droga era il business della famiglia, la cui gestione era inizialmente tutta nella mani di Giuseppe Romolo che si serviva dei figli Antonio e Ferdinando e anche di Michele Petillo, «uno dei suoi spacciatori di fiducia» che aveva il monopolio per vendere alla via dei pub.
Quest'ultimo era stato infatti arrestato in flagranza di reato nel 2016 con oltre due etti di cocaina, passato diverse volte dai domiciliari al carcere e infine arrestato di nuovo nel 2019 nell'operazione Masterchef per un giro di droga scoperto all'interno della casa circondariale di Latina.
Petillo, racconta Renato Pugliese, «l'ho cresciuto io». Ha iniziato come semplice spacciatore al Villaggio Trieste. Comincia col portare 2mila euro a settimana, poi arriva a 30-40mila al mese e comincia a lavorare con Romolo.
Nel giro dello spaccio c'è poi il genero di Giuseppe Romolo, non indagato nell'inchiesta Movida ma citato dai collaboratori di giustizia negli affari legati alla droga, capace di movimentare 500 grammi di cocaina a settimana per conto di Romolo.
Laura Pesino
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