Fosse Ardeatine, quella Capitale ferita ma capace di rialzarsi

La memoria rivive nei luoghi simbolo dell'eccidio: da via Tasso a forte Bravetta

Fosse Ardeatine, quella Capitale ferita ma capace di rialzarsi
di Mario Ajello
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Sabato 23 Marzo 2024, 07:23

Un orrore impareggiabile. Una ferita a morte, per Roma, che 80 anni dopo ancora sanguina. Una strage anti-italiana quella delle Fosse Ardeatine. In cui vennero uccisi partigiani di ogni tendenza politica, detenuti comuni, intere famiglie di ebrei, aristocratici e contadini, anziani e giovani (anche due quindicenni: Michele Di Veroli e Duilio Cibei, il secondo arrestato a Ponte Mammolo e torturato a via Tasso), analfabeti e intellettuali, atei e cristiani. Tanti civili e tanti militari (5 dei quali generali e molti altri erano stati volontari nella Grande Guerra, sempre vicini alla monarchia e in alcuni casi anche al fascismo), carabinieri e poliziotti, e tutti gli ufficiali del Fronte militare clandestino che faceva capo al colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Per non dire dei romani rastrellati mentre passavano per le strade e degli abitanti di via Rasella, arrestati solo per il fatto di trovarsi lì e accusati dai tedeschi che pensavano che la bomba contro di loro fosse stata lanciata dalle finestre e Hitler disse subito «prendeteli casa per casa!».

LE LISTE

Tutti insieme vennero inseriti nelle liste delle persone da sottoporre alla vendetta - l'elenco fu rimaneggiato fino all'ultimo istante in quella fine di marzo del 44, con nomi che entravano e che uscivano in una roulette dei sommersi e dei salvati in cui la vita e la morte erano il gioco dei carnefici - e tutti insieme venero destinati al colpo alla testa nelle grotte sull'Ardeatina perché ritenuti colpevoli, conniventi, italiani.
Gente di Roma. 335 patrioti.

In un momento in cui essere italiani significava - agli occhi degli aguzzini nazisti e dei volenterosi carnefici che collaboravano con loro - diventare meritevoli di una condanna a morte. La rappresaglia si sarebbe potuta evitare? Se i partigiani che avevano messo la bomba in via Rasella, se quei gappisti che nel covo di via Marco Aurelio in zona Colosseo avevano organizzato la strage del battaglione tedesco Bozen si fossero consegnati ai tedeschi occupanti, si sarebbe scongiurata la vendetta ai danni degli innocenti? Queste sono domande, anche morali, che appartengono da sempre a quei fatti. Ma i fatti dicono comunque che una grande comunità piena di storia e di dignità, quella dei cittadini romani, venne falcidiata e fu oggetto della maggiore strage urbana condotta dai nazisti nell'Europa occupata.

In un biglietto scritto a matita, trovato nella tasca di una delle vittime e rivolto ai genitori, si legge: «Ricordate! Chi per la Patria muor vissuto è assai! Ebbene, se la patria mi chiedesse il supremo olocausto, non indietreggerei. Non indietreggerò. Sono Italiano e mi vanto di appartenere alla Nazione più bella del mondo. Se non dobbiamo più rivederci, ricordate che avete avuto un figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando in viso i carnefici». Che cosa dire di più? Non è dentro queste poche righe tutto il senso del sacrificio che 335 patrioti furono chiamati a subire, in una città che poco dopo si sarebbe finalmente liberata dall'orrore dell'occupazione e avviata a un futuro reso più forte anche per effetto delle profonde sofferenze patite? Roma oggi non può non essere fiera di come ha saputo rialzarsi da quell'ecatombe, e liberarsi, crescere, custodire i valori giusti di umanità e di democrazia, fino a rappresentare il simbolo della civiltà che ha battuto la barbarie. Roma sperimentò l'abisso del nazifascismo ma maturò anche le condizioni per il più grande salto civile, sociale e democratico del Paese. Mettendosi alla testa della rinascita della nazione.
I nazisti, straziando la gente di Roma nelle Fosse Ardeatine, avevano voluto ribadire il senso della propria invulnerabilità davanti alla popolazione di questa città che, pur non ribellandosi attivamente in massa, non si mostrava disposta a collaborare con gli occupanti. L'orgoglio della Capitale andava massacrato e così fu ad opera del capo delle SS, Herbert Kappler. La topografia dell'orrore include luoghi che sarebbero restati nella memoria. Il palazzo di via Tasso 145-155 sede dei servizi di sicurezza ovvero l'inferno delle torture naziste (lì dove per esempio era stato rinchiuso uno dei morituri, il generale Sabato Martelli Castaldi che fece sapere clandestinamente alla moglie: «Mi hanno inflitto 24 nerbate sotto la pianta dei piedi, più le scudisciate e i cazzotti. Io non ho dato loro la soddisfazione di un lamento, solo alla ventiquattresima nerbata ho risposto con un pernacchione che fece restare i manigoldi come tre autentici fessi») e Regina Coeli e Forte Bravetta da cui partirono i camion in direzione delle Fosse Ardeatine; l'ambasciata tedesca di via Biancamano e il quartier generale nell'albergo Flora a via Veneto in cui i carnefici prendevano ordini da Berlino; la pensione Oltremare a via Principe Amedeo 2 in cui i destinati alla morte venivano torchiati; i giardinetti di Piazza Venezia dove si svolsero diversi incontri tra Carlo Salinari e gli altri comunisti e gappisti per organizzare l'attentato anti-tedesco; la scalinata dei Borgia, nel cuore dell'Esquilino, dove Rosario Bentivegna, quello che accese la miccia della bomba di via Rasella, si liberò della divisa da netturbino con cui si era travestito per fare la sua azione. E via così, le vicende di quei giorni di 80 anni fa sono impresse negli spazi che tuttora abitiamo, sono raccontate anche dalla città del nostro presente. Ciò rende sempre viva la storia di quei frangenti agghiaccianti che vide troppi italiani complici degli occupanti (il questore Caruso su tutti), rimasti fascistissimi, pronti a fare le spie come Celeste Di Porto, la delatrice del Ghetto di Roma, soprannominata per la sua bellezza dai camerati «la stella di Piazza Giudia». Tra i principali collaboratori a libro paga dei tedeschi figurava anche Mauro De Mauro, il giornalista che nel 1970 sarebbe finito vittima di Cosa Nostra per le sue inchieste scomode.

La carneficina cominciò nelle cave dell'Ardeatina alle 15,30 con l'ordine di Kappler che ogni soldato sparasse un solo colpo contro ognuno dei 335 della lista. La pallottola - avrebbe dichiarato lui stesso nel processo del 1948 - «doveva raggiungere il cervello della vittima attraverso il cervelletto, in modo che nessun proiettile andasse a vuoto e la morte fosse istantanea». Per dare l'esempio ai propri uomini, Kappler partecipò alle prime esecuzioni. Da quel momento, corpi su corpi, sangue su sangue. «L'ordine è stato eseguito», come annunciò entusiasticamente la propaganda nazifascista. Ma poi sarebbe cominciata un'altra storia e Roma avrebbe dimostrato di essere più forte del martirio.

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