Riccardo De Palo
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di Riccardo De Palo

Giulio Milani, editor e scrittore: «Scopro talenti e poi li perdo»

Giulio Milani, editor e scrittore: «Scopro talenti e poi li perdo»
di Riccardo De Palo
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Domenica 4 Agosto 2019, 15:41
Transeuropa è una casa editrice che ha lanciato scrittori come Enrico Brizzi, Gilberto Severini, Silvia Ballestra: indipendente per definizione, regno fino a pochi anni fa dello scopritore di talenti Massimo Canalini, quando era frequentata da Pier Vittorio Tondelli, è ora guidata da Giulio Milani, scrittore-editore posseduto da un'autentica passione per la letteratura. «Il mio - racconta - è stato un percorso anomalo: ho iniziato a studiare Legge alla Luiss negli anni Novanta perché avevo il mito di Falcone e Borsellino; alla fine mi sono laureato in Storia a Pisa. La mia tesi sulla ritirata dalla Russia è poi diventata il nucleo fondamentale di un libro pubblicato con Laterza, I naufraghi del Don». 

Come ha iniziato?
«Ho cominciato come autore, proprio con Transeuropa: c'era stato il successo di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, nel 94; partecipai alla prima antologia di under 25 del dopo Tondelli (lo scrittore di Altri libertini morì nel 1991, a soli 36 anni, ndr) curata da Silvia Ballestra e Giulio Mozzi. Mi selezionarono e, poiché ero interessato a lavorare anche sui testi degli altri, cominciai un apprendistato che continuò nel tempo».

Poi, però, arrivò la crisi del mercato.
«Transeuropa ebbe diversi problemi: si fece un'alleanza con Theoria di Beniamino Vignola, Costa & Nolan, e altre case editrici che si misero insieme per superare la crisi e che, invece, tracollarono tutte insieme».

Però lei è rimasto in piedi.
«Tra il 2000 e il 2003 la casa editrice non esisteva più, c'erano cataloghi spacchettati, confusi: era una situazione drammatica. Canalini insisteva nel dire che era importante mantenere vivo il marchio; così nacque l'idea di fare una società insieme. Durò poco: nel 2005, non volle proseguire l'esperienza, e io trasferii gli impianti da Ancona a Massa, dove risiedo e lavoro tuttora. Da allora la casa editrice è sotto la mia direzione editoriale».

Un marchio che ha lanciato autori molto famosi.
«È stato un crocevia importante, perché a parte Pier Vittorio Tondelli, che a sua volta aveva imparato il mestiere da Aldo Tagliaferri di Feltrinelli, c'era Nanni Balestrini che veniva dal gruppo 63, Claudio Piersanti che a sua volta aveva imparato tutto da Grazia Cherchi... In seguito arrivò anche Giulio Mozzi, altro editor di grande capacità, che ha svecchiato il panorama narrativo italiano. Quella di Transeuropa è stata una piccola grande avventura. La piccola editoria di qualità stava per fare un salto, che poi effettivamente fece con Einaudi Stile Libero e i cannibali».

Lei è stato apparentato a questo fenomeno letterario, così italiano, così anni Novanta?
«Della nostra antologia Under 25 - Coda - il titolo veniva dai Led Zeppelin, il gruppo preferito di Canalini - scrisse Renato Barilli: c'erano i "cannibali" e poi c'eravamo noi, i "vegetariani". È stato un periodo di grande fermento, con Tiziano Scarpa, Aldo Nove, gli amici del gruppo 93 di Lello Voce: quello spirito di cooperazione non l'ho più rivisto. Si è tutto frammentato, non posso neanche dire che è diventata una guerra per bande, perché non c'è più il campo di battaglia».

Chi ha scoperto, una volta diventato editore?
«Dal 2005 per qualche anno mi sono dedicato alla saggistica,  ai testi di René Girard. Poi ricominciai con la narrativa, con un'antologia intitolata I persecutori: chiedevo ad autori come Christian Raimo, Giorgio Vasta, Marco Rovelli, Helena Janeczek, di applicare la teoria girardiana alla narrativa; se ne parlò molto; per Vasta fu un esordio; doveva partecipare anche Saviano, ma poi diventò una star internazionale e non se ne fece nulla».

Lei lanciò una collana, Narratori delle Riserve. Perché questo nome?
«Era ispirato a un libro di Gianni Celati. Il senso era: ci sono narratori più appartati, che stanno nelle riserve, ma possono essere tutt'altro che periferici. Nel 2008 pubblicai il primo romanzo: era quello di Fabio Genovesi, un autore che ancora non conosceva nessuno. Mi fecero leggere un suo racconto, vidi che c'era del talento; Versilia Rock City fu il suo primo libro; poi è passato a Mondadori, ha vinto il premio Strega giovani».

Altri colpi?
«Fu un periodo veramente fortunato, perché il secondo libro fu quello di Giuseppe Catozzella, che Mondadori stava covando, senza decidersi a pubblicarlo. Io lo trovai interessante: Espianti era un'inchiesta sul traffico di organi tra Italia e India, cronaca giudiziaria reale, ma in forma di romanzo. Sempre in quell'anno lì, arrivò il libro di Demetrio Paolin, Il suo nome è Legione, che nessuno voleva, perché considerato di un'area cattolica reazionaria: io invece lo trovai valido. Pure lui ha fatto la sua carriera con Voland, è entrato in selezione allo Strega. Pubblicammo anche Andrea Tarabbia, un altro autore congelato da grossi editori. La calligrafia come arte della guerra uscì nel 2009; ora è un autore affermato, più volte nella selezione del Campiello, pubblica con Mondadori, Ponte alle Grazie».

Una volta lanciati, vi danno il benservito?
«Molti, purtroppo, non si sono più rivisti. Non siamo riusciti a fare lavoro di squadra (come è stata capace di fare Minimum Fax, per esempio), anche se Canalini ci provò in tutti i modi. Ma qualcosa di simile sta avvenendo con i nuovi autori della collana Wildworld, perché lì c'è un progetto specifico, condiviso dagli scrittori».

Di cosa si tratta? 
«È un gioco, a metà tra la cronaca e la fiction pura. Il primo libro uscito nella collana, quello di Mario Bramè, La notte dei ragni d'oleandro, si ispira ai fatti del Bataclan di Parigi, solo che i terroristi non guardano al Corano, ma a Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer».

È vero che fa tutto da solo?
«Il grosso lo faccio io, perché è l'unico modo per restare in piedi. Avevo tentato di creare una struttura più ampia, ma fummo travolti dalla crisi del libro del 2011, quando da un anno all'altro scomparvero settecentomila lettori forti. Prendemmo in pieno il picco dei social network, quando la gente cominciò a leggere meno».

Una volta ha detto che i libri di oggi non li pubblicherebbe mai. Lo pensa ancora?
«Era una provocazione, ma credo che il livello medio degli autori italiani sia assolutamente migliorabile. Cercare solo titoli che seguono un certo filone di successo non è proprio il massimo della novità».

Philip Roth una volta disse che un giorno i romanzi saranno soppiantati dalle serie tv. È d'accordo?
«Ma no. Le fiction più riuscite non fanno altro che usare determinate tecniche che lo scrittore conosce benissimo. Per esempio, il famoso cliffhanger, il colpo di scena che alla fine di una puntata ti lascia appeso, l'ha inventato Charles Dickens».

Anche lei è tentato dalla serialità?
«L'uomo è un animale seriale. Il lavoro, il mito, la religione, sono basati sulla serialità. Ciò che non va bene è la mania della serializzazione, portare avanti una saga all'infinito». 
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