Pio d'Emilia
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Quel tempio della pace che provoca discordia

Quel tempio della pace che provoca discordia
di Pio d'Emilia
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Lunedì 24 Ottobre 2022, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 21:13

Ci risiamo. Cina e Corea protestano per l’ennesima visita di alcuni politici giapponesi – con il premier Kishida che a differenza di alcuni suoi predecessori (Koizumi e Abe in particolare) saggiamente si è limitato ad inviare un omaggio floreale - al controverso Sacrario Yasukuni, il cui nome, ironia della sorte, significa “Paese della Pace”. E che invece semina, di fatto, discordia. Ma non per colpa – o almeno non solo – del Giappone.


Alla base di questa annosa polemica, c’è infatti un grande, quanto sfuggente ai più, malinteso diciamo così “culturale”. Ed è legato al concetto di “mitama”, equivalente shintoista della nostra “anima”. I sacrari shintoisti, non sono infatti luoghi di culto e/o venerazione: la loro funzione principale è quella di “ospitare” le anime dei defunti, anime che, una volta liberatesi dal corpo, vengono di fatto purificate e finiscono per “appollaiarsi” – letteralmente – sui rami degli alberi che in genere abbondano nei templi, da dove vigilano e proteggono il Paese e i suoi abitanti. 
Un “esercito spirituale” più che di esseri umani di cui si ricordano, nel bene e nel male, le gesta. Questo vale anche e soprattutto per lo Yasukuni, fondato nel 1869 dall’allora Imperatore Meiji per ricordare le vittime dell’ultima, sanguinosa guerra civile: quella che oppose i sostenitori dell’imperatore, a favore dell’apertura del Giappone all’Occidente, ai “sovranisti” – diremmo oggi - dello Shogun, che volevano invece mantenere “chiuso” il Paese, e conservare così il loro potere assoluto di stampo medievale. 


Nel frattempo, lo Yasukuni si è “allargato”: oggi ospita ben 2.466.532 “anime”, tutte con nome e cognome, data e luogo di nascita e di morte del corpo dal quale provengono. Uomini, donne, bambini: perfino animali domestici morti per la patria, e non solo in guerra. Anche in tempo di pace, basta che la morte sia avvenuta “in servizio”. E ci sono anche numerose anime straniere: coreani e taiwanesi, soprattutto, anche se qualche discendente è in causa col santuario perché vorrebbe riportare il suo spirito a casa. Una specie di “altare del milite noto”, dunque. Il problema è che alcuni sono più “noti” degli altri: il tempio ospita infatti anche 1068 criminali di guerra, compresi i peggiori. 
Quei 14 di “classe A” – primi fra tutti il generale Hideki Tojo – che il Tribunale di Tokyo, brutta e iniqua copia di quello di Norimberga, nel 1948 individuò come i maggiori responsabili della guerra e dei crimini commessi durante il suo corso, condannandoli a morte o all’ergastolo.

Peccato che, su “suggerimento” degli Stati Uniti – al quale tentarono inutilmente di opporsi gli altri alleati: Churchill, Stalin e Chang Kaishek – il Tribunale decise non solo di non incriminare l’imperatore Hirohito – decisione giuridicamente ed eticamente opinabile ma rivelatasi politicamente vincente - ma anche altri efferati criminali come il maggiore Shiro Ishii, comandante della famigerata “Unità 731”, che condusse per anni esperimenti di armi chimiche e batteriologiche su prigionieri di guerra e semplici civili.


Logico, direte voi, che se i giapponesi andassero un paio di volte l’anno a “venerare” questi personaggi, celebrandone gesta e memorie, Cina e Corea, ma anche il resto del mondo, dovrebbe preoccuparsi. Sarebbe come se mezzo parlamento italiano, e magari qualche ministro, si recassero a rendere omaggio sulla tomba di Mussolini o del generale Graziani, quello che ordinò l’uso dei gas asfissianti in Etiopia. Ma per fortuna, non è così. Intanto, le visite ufficiali sono diventate oramai da anni, diciamo dai tempi di Yasuhiro Nakasone (1986) un gesto puramente politico. Una “provocazione” che i vari governi giapponesi – e i loro premier – hanno utilizzato e continuano ad utilizzare come strumento di politica estera. 
Basti pensare che nella storia recente, dopo Nakasone, Hashimoto e Koizumi (che da quando non è più premier non ha più messo piede allo Yasukuni) sono passati molti anni prima che Shinzo Abe, l’ex premier di recente assassinato, compisse, nel 2013, la sua prima (e unica) visita ufficiale. Da allora, per evitare tensioni con Pechino e Seoul (che tuttavia restano), i premier giapponesi al massimo mandano dei fiori, lasciando ai parlamentari e a qualche ministro (ma «a titolo personale») il compito di mantenere il legame istituzionale con le anime dello Yasukuni. In tutto questo il popolo giapponese c’entra poco o niente: la classe politica che lo rappresenta è infatti molto più a destra e portatrice di istanze revanchiste e negazioniste. 
Ma ciò non significa che il popolo la segua. Lo stesso Abe, che come l’attuale premier Kishida godeva di una maggioranza “bulgara” in Parlamento, si è guardato bene dal far approvare la riforma costituzionale, ben sapendo che il relativo referendum confermativo non sarebbe passato. Il giapponese medio con la guerra ha chiuso da tempo i conti e difficilmente li riaprirà mai. Qualcuno dice anche in caso di (improbabile) aggressione. E vale la pena ricordare che lo stesso Imperatore – e tutta la sua famiglia – non mettono piede allo Yasukuni dal 1978, quando l’allora abate negazionista Nagayoshi Matsudaira (poi costretto a dimettersi) aprì le porte del tempio, con una suggestiva cerimonia notturna segreta, alle anime dei 14 criminali di guerra. 
Un gesto sconsiderato, probabilmente incostituzionale, che ha dato inizio alla lunga, perdurante e pericolosa controversia. Sulla quale anche cinesi e coreani hanno, sia chiaro, le loro responsabilità. Perché se è vero che il Giappone (meglio: la sua classe politica ed alcuni intellettuali) non hanno ancora chiuso con il passato e indugiano spesso su posizioni negazioniste, è anche vero che a livello istituzionale ufficiale i suoi governi hanno più volte chiesto scusa per le “ingiuste sofferenze” causate, (l’Olanda ha aspettato l’anno scorso, più di 70 anni, per chiedere scusa formalmente all’Indonesia, per i crimini commessi nel dopoguerra, nel tentativo di riconquistarla come colonia) facendo onore a tutti gli impegni finanziari assunti in tema di risarcimento dei danni di guerra. Facciamo sì, i conti con la storia. Ma lasciamo in pace le anime appollaiate nel sacro bosco dello Yasukuni. Non fanno male a nessuno.
 

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