Pio d’Emilia
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Oriente Furioso/ Quella sindrome cinese nel Giappone dei giovani

di Pio d’Emilia
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Lunedì 7 Novembre 2022, 00:28

Quando sono arrivato per la prima volta in Giappone, alla fine degli anni ’70, i giapponesi erano terrorizzati dall’Unione Sovietica. I russi erano lo spauracchio di grandi e piccini, i “brutti e cattivi”. Non avevano mai digerito la “storica” sconfitta di Tsushima nel 1905, quando il Giappone, appena affacciatosi sullo scenario internazionale dopo secoli di autoisolamento, diede una sonora lezione allo Czar distruggendone la flotta e vincendo la sua prima “grande” guerra. E alla fine della seconda guerra mondiale, nonostante il patto di non aggressione a suo tempo firmato tra i due Paesi, avevano dichiarato guerra all’oramai esausto, “povero” Giappone, iniziando ad invaderlo da nord. In effetti, tra i vari motivi che spinsero gli Usa a lanciare le bombe atomiche – concordano oramai la maggior parte degli storici – c’è stato senz’altro quello di accelerare la resa del Giappone, evitando che l’avanzata dei russi costringesse gli alleati a dividere l’arcipelago come la Germania: Giappone del Sud e Giappone del Nord. 

Paura e disprezzo verso l’Urss, dunque. E timido, ma crescente, entusiasmo per la Cina. Erano infatti gli anni in cui il premier più corrotto ma anche più amato del dopoguerra, Kakuei Tanaka (poi finito in disgrazia per lo scandalo Lockeed) era riuscito a riallacciare le relazioni con Pechino, grazie ad uno storico – e mal digerito dagli Usa – viaggio tenuto segreto fino all’ultimo e che portò nel giro di pochi mesi alla firma del trattato di pace e cooperazione. Un trattato in cui i cinesi – inaspettatamente – rinunciavano perfino alla richiesta dei danni di guerra. Un gesto generoso, nei confronti di un Giappone che era comunque già risorto dalle macerie della guerra e che era già lanciato in corsia di sorpasso. E che poteva permettersi, non solo simbolicamente, di pagare per i danni e le sofferenze causate durante l’occupazione. Come del resto fece, sia pure sotto l’ambigua formula di “assistenza allo sviluppo”, nei confronti della Corea (del Sud: con il Nord la questione è ancora aperta)

Sono passati quasi 50 anni, è la situazione è completamente cambiata. Non che i russi siano diventati amici, ci mancherebbe. Ma non sono più percepiti come una minaccia. Oggi sono i cinesi a popolare gli incubi dei giapponesi. Sia a livello politico ufficiale che, anche e soprattutto, popolare. Secondo l’istituto Genron, che sull’argomento svolge da anni dettagliati e regolari sondaggi, l’84% dei giapponesi considera oramai la Cina una minaccia concreta e il 77% ritiene che sia possibile un’invasione. Il dato più significativo è quello che riguarda i giovani sono i trent’anni: per loro la Cina è il Paese più odiato (sapete qual è, per questa fascia di popolazione, il più amato? L’Italia).

Il rapporto che lega il Giappone alla Cina – e più in generale al continente asiatico – è molto delicato e complicato. Un po’ come quello che lega il Regno Unito all’Europa: entrambi rivendicano antiche e per certi versi originali ed autonome tradizioni, ma che in realtà affondano le loro radici nel continente. E il ruolo che ha avuto la Cina nella “civilizzazione” della penisola coreana e del Giappone – dalla lingua ad ogni altra forma di tradizione culturale e sociale - è stato ben maggiore di quello avuto dai romani nel resto dell’Europa, Regno Unito compreso. Ma a differenza della Gran Bretagna, da sempre oggetto di tentativi di invasione regolarmente falliti (pensiamo solo ai più recenti: Napoleone, Hitler) il Giappone, dove oggi prevale una diffusa quanto oggettivamente ingiustificata sindrome sinofoba, ha sicuramente mostrato nei confronti del continente asiatico, ed in particolare verso la Corea e la Cina, maggiore aggressività di quanta ne abbia subita. 
Perché a fronte dei due tentativi di invasione subiti nel XIII secolo dai mongoli di Kubilai Khan – la cui flotta venne distrutta da due provvidenziali tifoni, i famosi “kamikaze” (“venti divini”), il Giappone ha invece ripetutamente invaso, e temporaneamente occupato, la penisola coreana e la Cina.

Almeno una decina di volte, negli ultimi due secoli. L’ultima delle quali, quella che portò all’annessione della Corea e all’occupazione militare della Cina, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, fu particolarmente crudele e sanguinosa, e ha ancora lasciato molte ferite aperte. «L’atteggiamento sinofobo attualmente imperante in Giappone, per quanto possa essere ispirato dagli Stati Uniti e artificiosamente pompato dai nostri media è assurdo e ingiustificato – tuona Satoshi Kamata, scrittore e autore di numerosi saggi sull’argomento – dobbiamo tutto alla Cina e dobbiamo solo sperare in una veloce ripresa dei nostri rapporti culturali, sociali, economici e politici, piuttosto che temere, o far finta di temere, una imminente guerra». Per ora l’appello di Kamata non sembra essere stato raccolto.

E se è vero che il mondo del business – come avviene anche in Europa – preferirebbe allentare la tensione con Pechino e tornare a poter fare affari – c’è chi invece sostiene che la Cina la sua “guerra” l’abbia già da tempo iniziata e la stia vincendo. «La Cina non ha bisogno di invaderci militarmente – si legge in un editoriale non firmato dello Shukan Gendai – lo sta già facendo, e con grande successo, acquistando strutture, aziende e cervelli. Non avete idea di quanti nostri cervelli stiano oramai lavorando per la Cina. E senza bisogno di trasferirsi, come un tempo succedeva per chi decideva di lavorare per aziende Usa. Rubarci i nostri ingegneri, acquistare le nostre aziende e i nostri brevetti è una strategia molto più efficace che minacciare un improbabile embargo nel settore dei semiconduttori…»

«Il modo migliore per vincere una guerra – scriveva qualche secolo fa Sun Tzu – è quello di sottomettere il nemico senza combattere». E sono in molti quelli convinti che sul suo comodino, oltre alle opere di Mao, l’attuale “Imperatore” della Cina, Xi Jinping, abbia anche una bella edizione rilegata dell’Arte della Guerra di Sun Tzu. Magari ne spedisse una anche a Putin.

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