In questi giorni ricorre – a malapena liquidato con poche righe dalla maggior parte dei media - il secondo anniversario dell’ennesimo, sanguinoso golpe militare in Myanmar, l’ex Birmania. Un golpe che ha di nuovo arrestato il faticoso percorso intrapreso da quel bellissimo e sfortunato Paese verso la democrazia e che ha provocato sinora almeno 3000 morti civili, di cui 250 bambini.
Secondo il Sipri, l’Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace che ha sede a Stoccolma, sono oltre 60 i conflitti armati, di varia intensità, in corso sul nostro pianeta, e alcuni “producono” più vittime, ogni giorno, della guerra in Ucraina. E’ ovvio che i nostri media non possono seguirli tutti, e che una guerra dietro – o forse già dentro – le nostre porte può e deve avere una certa priorità. Ma quello che avviene in Myanmar non riguarda solo il popolo birmano, che purtroppo da quando ha ottenuto l’indipendenza non è ancora riuscito a trovare pace e stabilità. Riguarda, molto più di tanti altri conflitti “locali”, l’intera comunità internazionale.
Sia perché è un conflitto locale ma di fatto molto “allargato”, nel quale giocano gli interessi di vari Paesi – Cina e Russia, soprattutto, ma anche l’India – sia perché ancora una volta mette in luce e denuncia l’incapacità della comunità internazionale, a cominciare dall’Onu e finendo alle istituzioni regionali come l’Asean, la debole e divisa Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico, di intervenire efficacemente per difendere – e possibilmente ripristinare – il cosiddetto “ordine internazionale”.
Tra gli imputati maggiori siede anche e soprattutto l’Unione Europea, che al di là delle varie condanne, degli incontri più o meno ufficiali, dell’approvazione delle solite e inutili sanzioni e di modesti finanziamenti in due anni non è ancora riuscita a riconoscere formalmente il Nug, il governo di unità nazionale in esilio.
Un governo formato, per buona parte, dai leader politici democraticamente eletti in occasione delle ultime elezioni del 2020, quando la Nld, il partito della signora Ang San Suu Kyi, aveva ottenuto un vero e proprio trionfo.
I militari per un po’ sono stati al gioco.
Anziché limitarsi ai proclami, ad organizzare incontri più o meno ufficiali e approvare sanzioni “ad personam” che come oramai tutti sappiamo lasciano il tempo che trovano, perché non stanziamo aiuti seri, ivi compresi aiuti militari? E’ quello che chiedono – esattamente come fa Zelensky – i dirigenti del Nug, il governo legittimo ma costretto all’esilio. Certo, non sarebbe semplice, e non solo per le difficoltà logistiche. Ma quello che manca è il dibattito politico, e questo nonostante nel frattempo Cina, Russia e anche India, che in varie forme appoggiano il regime, stiano approfittando della situazione per conquistare nuove posizioni geostrategiche e rafforzare la loro presenza nella regione.
Ma mentre con l’Ucraina la comunità internazionale è stata – qualcuno dice anche troppo – generosa, nei confronti del Myanmar continuano a girare la testa dall’altra parte. L’ultima istantanea rimbalzata sui media è quella dell’ennesima inviata speciale dell’Onu e quella della singaporese Noeleen Heyzer, che si è fatta ritrarre sorridente a fianco del generale Min Aung Hlaing, capo della giunta golpista. Che tristezza.